C'era una volta... Vermiglio
C’è stato un tempo, neanche tanto lontano, in cui la cena in famiglia, tutti riuniti attorno a un tavolo, era una sorta di rito. Un tempo in cui ci si accontentava del poco a disposizione, la vita era scandita dalle stagioni e per sorridere bastava danzare sull’erba. Se oggi – schiavi come siamo dello smartphone, in balia del traffico e di ritmi di vita frenetici – non riusciamo neanche ad immaginarcelo, è il caso di andare al cinema a vedere Vermiglio (dal 19 settembre). Ambientato nell’omonimo paesino dell’alta Val di Sole (TN), questo splendido affresco familiare che ha vinto il Gran Premio Giuria alla 81^ Mostra internazionale d’arte cinematografica La Biennale di Venezia, ci riporta indietro agli anni ’40 del ‘900.
La Seconda Guerra Mondiale sta per finire quando Pietro, un giovane soldato siciliano, conduce il suo compagno ferito a casa tra le montagne, creando scompiglio in una piccola comunità fatta di agricoltori e pastori fortemente radicati nelle loro tradizioni e nei loro pregiudizi. Ha inizio così il film di Maura Delpero, un’opera per così dire autobiografica, come ha raccontato lo scorso 2 settembre la regista, giunta in Laguna per presentare la sua opera. «Il film nasce da un sogno fatto poco dopo la morte di mio padre, che è nato e cresciuto proprio in un paesino dell’alta Val di Sole. Nel sogno papà mi appariva come non l’avevo mai visto, come un bimbo di 6 anni». Da qui l’idea di non perdere quelle origini, ma di raccontarle e mantenerle vive attraverso la telecamera.
In un periodo storico di passaggio e grande cambiamento (il dopoguerra, appunto), Maura Delpero mette in scena un paradosso: «La famiglia protagonista perde la pace proprio quando nella macrostoria la pace ritorna». A farne le spese: Cesare e Adele, marito e moglie, con Lucia e gli altri figli. «I bambini fungono da coro, come nelle tragedie greche, sono un commento a ciò che succede – spiega Delpero –. Mi piaceva l’idea di affidare il punto di vista ai piccoli. La loro è una prospettiva universalmente interessante perché ci riporta a uno sguardo più “pascoliano” del fanciullino, ma anche ironico e capace di stemperare». Altro elemento centrale del film è la maternità. «Un fil rouge nei miei lavori – continua la regista –. La maternità può essere un motore di superamento, nel caso di Lucia lo è, ma anche un modo per riappropriarsi della vita, oltre che di una figlia che inizialmente rappresenta dolore, ma che poi diventa tesoro, spinta verso il futuro e mezzo di emancipazione».
Ma qual è il segreto per riuscire a toccare temi così delicati con spontaneità e leggerezza? «Il mio processo creativo avviene in maniera abbastanza incosciente – spiega Maura Delpero –. Il lavoro che faccio è mettermi in ascolto di una serie di movimenti dell’anima sepolti nel mio inconscio, che attraverso il cinema possono riemergere». Nulla di strano, dunque, se la regista per il suo ultimo lavoro ha attinto alla storia e ai protagonisti della propria famiglia. «Credo di avere dentro di me mia madre, mia nonna e tutte le donne che mi hanno preceduto. Mia nonna è una donna che ha partorito dieci figli e per anni non si è mai mossa dalla cucina. Ovviamente lei c’è stata nella mia formazione femminile, nel mio nascere e crescere in questo mondo». Una donna d’altri tempi, insomma, un po’ come Adele… «Il mio personaggio – racconta l’attrice Roberta Rovelli – rappresenta l’operosità. Per interpretarla ho pensato a mia nonna e a tutte quelle donne che all’epoca svolgevano più mansioni contemporaneamente: cucinavano, riordinavano casa… magari con i figli in braccio. Nel film c’è una scena in cui tutti sono seduti a fare colazione e Adele è l’unica che mangia in piedi: deve assicurarsi che tutti abbiano il necessario…».
A lasciarsi coinvolgere dalle atmosfere d’altri tempi del film è stato anche Tommaso Ragno, l’attore che interpreta Cesare, maestro e padre di famiglia, uno di quegli uomini che, durante la guerra, sono rimasti ad occuparsi della comunità, facendo anche le veci di chi è partito per il fronte. «Questo lavoro ha un elemento poetico molto forte – ha commentato l’attore, anche lui ospite alla Mostra del Cinema di Venezia –. È stato importante realizzare quanto il codice di comportamento della comunità fosse lontano da quello a cui siamo abituati oggi. Quasi si trattasse di un mondo perduto, mitico. Anche la forza del luogo ha contribuito, nella seconda fase del lavoro, a influenzare notevolmente il progetto. La montagna può essere un luogo molto bello, ma anche sorprendentemente soffocante e, nello stesso tempo, fortemente spirituale».
Di questo avviso anche la regista di Vermiglio, Maura Delpero: «Dal punto di vista fotografico l’obiettivo era di raccontare queste montagne imponenti con dei campi anche molto grandi, perché la montagna in sé è un luogo che influenza molto il modo di essere delle persone. Quella di Vermiglio è una comunità montanara, lo si legge da come le persone si muovono, si esprimono, da come contengono le emozioni. Sarebbe stato un film completamente diverso, se lo avessimo ambientato in città. Ma io volevo raccontare questo luogo isolato con tutte le sue specificità: la grandezza, l’imponenza, l’immobilità, la pittoricità. Una montagna onnipresente, come del resto anche il cielo. Non a caso, a dispetto del titolo (che farebbe pensare al rosso vermiglio), io credo che il colore del film sia il celeste!».
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