Cercatore di speranza
Magdala, Monte Nebo, Cafarnao, Gerico, Tiberiade. Luoghi che ritornano nelle Sacre Scritture. Ma esistono veramente? Sono solo rovine di città antiche o moderni centri urbani? Dove si trovano? Per noi è facile. Perché da almeno un secolo la Terra Santa è stata indagata da archeologi illuminati. Ad aprire loro la strada, a dorso d’asino e con la Bibbia in mano, pionieri come fra Bernardino Amico, pugliese di Gallipoli (LE), guardiano del convento di Gerusalemme dal 1576 al 1581. Iniziarono un’opera di mappatura dei luoghi, utile anche ai giorni nostri. «La Terra Santa ha sempre affascinato – dice don Gianantonio Urbani, presbitero della diocesi di Vicenza, a Gerusalemme da quattordici anni, prima come studente e oggi come docente di Archeologia cristiana ed Escursioni allo Studium Biblicum Franciscanum, che quest’anno festeggia i cento anni –. Dobbiamo ai “Robinson anglo-americani” di allora le segnalazioni degli insediamenti originari, che poi vennero scavati, facendo affiorare i primi ritrovamenti. Tra cui le varie stele con le prime iscrizioni antiche: la stele di Merenptah (1387 a.C., riporta la prima testimonianza storica extrabiblica relativa al popolo ebraico), la stele di Rosetta, quella di Mesha (840 a.C., è la più lunga iscrizione mai rinvenuta che cita la Casa di Davide), ci hanno permesso il primo approccio a un mondo altrimenti difficilmente penetrabile».
Msa. Prete, accompagnatore di pellegrini, docente e anche un po’ Sherlock Holmes. Come nasce questa passione?
Urbani. Già durante gli studi in seminario, la domanda che mi ponevo era: perché uno che predica la Parola, che dovrebbe spezzare la Parola alle persone, non può fare un approfondimento anche nei luoghi dove questa si è manifestata? Essere stato mandato dalla diocesi di Vicenza a formarmi a Gerusalemme, è un sogno che si è avverato.
Lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme fu voluto dalla Custodia di Terra Santa come centro didattico e di ricerche; oggi è facoltà di Scienze Bibliche ed Archeologia della Pontificia Università Antonianum in Roma. Quest’anno ha celebrato il centenario dalla fondazione, con una mostra itinerante che, per l’Italia, si è conclusa a settembre nel convento francescano di Falconara Marittima (Ancona). Banner, cartelloni, vele, report di scavo, oggetti quotidiani raccontano un secolo di ritrovamenti.
La serietà dello Studium si misura anche dal numero di pubblicazioni. Il centenario ci ha fatto capire che tutta la documentazione prodotta in cento anni di lavori è già sufficiente per un’opera di divulgazione nei prossimi cento anni.
Ma a che cosa serve l’archeologia biblica?
Si tratta di una disciplina storica che fa riferimento ai luoghi scavati e non scavati, intercettati, studiati e divulgati – parti di città, monti, strade –, che sono riportati nella Bibbia, soprattutto nell’Antico Testamento. Così facendo, va a illuminare alcune pagine della Scrittura. Con il Nuovo, si parla invece di archeologia del Nuovo Testamento, quindi del rapporto molto stretto tra Vangelo e archeologia. Quando si legge una pagina di Vangelo, si entra subito in relazione con il luogo in cui si è verificata quella predicazione o annuncio, con dei nomi di persone, di villaggi, di fiumi, di montagne, e quindi questo allarga il concetto di Rivelazione, che non è solo di un libro, ma anche di un contesto. Sappiamo di biblisti che hanno studiato la Bibbia senza mai vedere e consultare i luoghi. Ma io penso che una cosa è leggere che Gesù si ritira nel deserto, un’altra cosa è sapere com’è fatto il deserto e vedere come quel deserto lì ha ispirato la rivelazione evangelica. Poi c’è l’archeologia delle Terre Bibliche, che ha uno sguardo più ampio. Non riguarda solo il popolo di Israele, ma anche i popoli confinanti e quelli con i quali Israele viene in contatto: la zona mesopotamica, l’Egitto, il Medio Oriente, ma anche l’Oriente più lontano.
Com’è la situazione dopo il 7 ottobre 2023?
Fino allo scorso dicembre, per gli internazionali c’erano limitazioni per entrare nei Territori Occupati. I nostri giovani che studiano anche a Betlemme in certi periodi hanno faticato a venire a Gerusalemme perché i check point erano stati chiusi. Ce n’è almeno uno per ogni enclave palestinese e la libertà di movimento è limitata. A causa di questo, per il momento abbiamo escluso la Samaria dalle escursioni, quindi niente visita al pozzo di Giacobbe. Sicuramente la situazione dopo il 7 ottobre è peggiorata, ma qui le difficoltà ci sono da decenni. Betlemme da vent’anni è separata da Gerusalemme dal muro. È dal 2000, anno dell’Intifada, che gli israeliani non possono entrare nei Territori e viceversa. Un’intera generazione non sa che cosa c’è oltre quel muro. Tutto questo ormai è diventato endemico nella gente, che però preferisce non parlarne, in una sorta di rimozione. Dice il patriarca Pierbattista Pizzaballa che ormai ognuno si è arroccato nelle proprie posizioni. Le tre grandi religioni difficilmente entreranno in dialogo a breve. Ognuna celebra le sue feste, ha i suoi ritmi. La minoranza cristiana –150 mila fedeli, «schiacciati» tra 9 milioni di ebrei e 7 milioni e mezzo di musulmani – ne uscirà probabilmente più in difficoltà.
I pellegrinaggi come vanno in questo periodo?
L’Europa è assente per paura e per altri motivi riguardanti la sicurezza. Solo pochi gruppetti che si organizzano autonomamente. Ma i pellegrinaggi non si sono mai fermati. Arrivano dall’Indonesia, dall’India. Il governo indonesiano offre il pellegrinaggio sia ai cristiani che ai musulmani. Perché questa terra è sacra per entrambi. Durante il Ramadan, di indonesiani ne sono arrivati parecchi. L’ultimo venerdì sulla Spianata delle Moschee c’erano 120 mila persone. Fino a qualche anno fa, anche la Nigeria offriva il pellegrinaggio riconoscendo che la visita ai Luoghi Santi illumina la strada delle persone. Sarebbe importante che anche l’Italia, che ha finanziato molti scavi, lo facesse. Non è solo una questione religiosa, san Francesco è patrono del nostro Paese. Questi sono luoghi eterni per tutti.
Che cosa si prova quando affiora qualcosa?
Abbiamo trovato delle incisioni rupestri e delle zone votive ad Har Karkom, nel deserto del Negev. Vedere che cosa ha creato un uomo di 30-40 mila anni fa, trovare tracce di chi è passato così tanto tempo prima, è un’emozione indescrivibile. Quelle incisioni sono un segno del suo incontro con Dio. Il grande archeologo Emmanuel Anati, ai piedi di Har Karkom, ci consigliava di respirare la montagna. Allora non capivo, ma ora sì. Vedere queste figure antropomorfiche che ti guardano, ti fa capire che cosa significa respirare la montagna.
L’archeologia biblica può favorire la pace?
Potrebbe farlo se chi si prende cura delle persone – governanti, politici, leader religiosi... –, guardasse un po’ alla storia, e non pretendesse il possesso assoluto di un territorio. All’Expo di Milano, in uno dei padiglioni, una scritta diceva: «Ce n’è per tutti? Sì, ce n’è per tutti, se ognuno sobriamente ne consuma». Io dico: terra ce n’è per tutti. Se ognuno sobriamente la accoglie come succedeva nel passato, c’è posto per tutti. L’esperienza che sto facendo in Terra Santa mi mostra ogni giorno quanto importante sia condividere ricerca e cultura.
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