A chi appartengo?
Tra le molteplici eredità che ci ha lasciato papa Francesco c’è una riflessione che mi ha particolarmente «stuzzicato». È una frase contenuta nell’Enciclica Fratelli tutti (2020): «Essere capaci di riconoscere ogni persona come unica e irripetibile, al di là del limite fisico». Mi sono chiesto: «Ma che cosa vuol dire precisamente?». E così ho iniziato a documentarmi su come la Chiesa abbia divulgato e valorizzato questo concetto.
Al giorno d’oggi, le persone con disabilità continuano a essere considerate, e soprattutto trattate, come deboli e fragili, in ragione dei loro deficit. A tal proposito, sul portale d’informazione online «Informare un’h», si fa riferimento al punto di vista di Justin Glyn, padre gesuita non vedente di origine australiana, il quale ci ricorda che tra le radici profonde che spiegano questo drammatico fenomeno culturale e sociale, c’è la convinzione, radicata e di antica memoria, «secondo la quale la disabilità, e il deterioramento cognitivo in particolare, è un guasto dell’immagine divina […]». E ancora si legge sul portale: «Glyn, essendo egli stesso una persona disabile, coglie in modo limpido il processo di inferiorizzazione a cui sono esposte le persone con disabilità all’interno della Chiesa». Quindi, nei contesti ecclesiastici, il concetto di inclusione, per essere autentico, non può fondarsi solo ed esclusivamente su principi quali la carità e la tolleranza, ma deve affondare le proprie radici in una prospettiva differente che riconosce il valore dell’appartenenza a un’unica umanità. Di conseguenza, non abbiamo più bisogno di parlare di ospitalità o inclusione delle persone con disabilità.
Alla base di questa visione, vi è la questione secondo cui le fragilità appartengono a tutte e a tutti, e possono essere anche riconosciute come motivazioni che spingono le persone a essere protagoniste, oltre che a porsi nelle condizioni di scoprire se stesse per cogliere nuove opportunità. Infatti, come si legge sempre nel suddetto portale: «Essere fragili non significa essere fermi, ma vuol dire avere il coraggio di fare i conti, ciascuno, con il proprio limite». La fragilità non è più sinonimo di staticità, passività, invisibilità e tutto ciò è affascinante perché elimina le categorie: la disabilità non è più una categoria. «Appartenere», per una persona con disabilità significa far parte dell’intero genere umano e non di un gruppo di persone marginalizzate, visibili solo per il proprio deficit, quindi bisogna «considerare le varie menomazioni che colpiscono gli esseri umani come aspetti di ciò che significa essere umani».
Sono convinto che la Chiesa abbia un ruolo cruciale nella trasmissione di questo pensiero. Mi auguro che papa Leone XIV possa continuare sulla scia avviata da Francesco. È un processo lungo e complesso, ci vuole tempo, ma è inevitabile ed è una bella sfida per l’umanità. Eliminare le categorie è un concetto che mi ha sempre affascinato, facciamo tutti e tutte parte della stessa umanità. Come canta Marco Mengoni: Credo negli esseri umani / Che hanno coraggio, coraggio di essere umani. E voi, sentite di appartenere all’umanità? Scrivete a claudio@accaparlante.it oppure sulle mie pagine Instagram e Facebook.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!