Ciò che siamo ce lo dice la Pasqua
Ciò che siamo a volte presumiamo di saperlo. Altre volte ci aspettiamo che siano gli altri a rivelarcelo. Talvolta, anzi, paghiamo pure o siamo disponibili a mettere in stand by i nostri valori per sentircelo sussurrare a un orecchio. Oppure andiamo a chiederlo alla carta d’identità, all’estratto conto bancario, alla quantità di contatti e like sui social, al numero di cavalli che scalpitano nel motore delle nostre auto o alla riconoscibilità immediata dell’etichetta dell’abito che indossiamo. Nel peggiore dei casi, al fondo di un bicchiere di superalcolico o alla fine di una storia strampalata e partita col piede sbagliato. Talmente è imprescindibile per noi fare i conti con quel «cumulo nebuloso di speranza e di memoria / al quale avrò dato il mio nome» (Jacques Réda).
A volte ci pare che sia proprio la fame a tenerci in piedi, di senso, di significato. Lavoriamo, sudiamo, facciamo l’amore, ci indebitiamo per una settimana bianca, collezioniamo tappi, e solo per trapanare con piccoli fori il silenzio che ci gela l’anima. Perché abbiamo la sensazione che i nomi, compreso il nostro, siano scollati dalle cose che intendono dire? Intuiamo il mistero che circola in mezzo, come vento che si insinua tra le fessure, perciò dappertutto non è il posto dove cercare risposta. Questa davvero è «altrove», e da là, gratuita, impensata, misericordiosa, immeritata, ci raggiunge. A rivelarci la nostra vera identità.
Ciò che siamo nasce il giorno di Pasqua, «partoriti» dal grembo di quella notte santa che sola sa che cosa sia davvero successo, e ne serba per sempre il mistero: redenti e salvati dall’amore «esagerato» del Signore! Ciò che siamo dobbiamo andare a cercarcelo in quella mattina, assieme alle donne che si recano al sepolcro e lo trovano inaspettatamente vuoto: il nostro dolore che va inesorabilmente a infrangersi contro quella pietra rimossa dalla tomba! Ma anche le nostre convinzioni e attese che devono essere ricalcolate. Ciò che siamo sta tutto nelle corse dei discepoli tra il cenacolo e la tomba vuota: paura, meraviglia, stupore, gioia, fraternità ritrovata, annuncio! È la vita che si rimette in moto, dopo la fermata forzata sul Golgota. Ciò che siamo è tutto nei momenti successivi, passato lo sconcerto iniziale, quando scopriamo che è proprio lui, è risorto: sono i nostri sogni che riprendono a scorrere, la nostra passione che si infiamma nuovamente! È la voglia di vivere, e di vivere bene!
Ma anche ciò che saremo viene tutto da lì, da quel lenzuolo adagiato in disparte, vuoto, inutile, segno di tutti i «sudari» della nostra vita da cui il Risorto ci spoglia: la capacità di amare a nostra volta, il donarci la vita gli uni gli altri, saperci perdonare reciprocamente, non giudicarci, accoglierci per quello che siamo, rivitalizzare l’aria ammorbata e funerea che qualche volta ci circonda, contribuire a costruire la nostra comunità. Insomma, il nostro cuore che comincia a dilatarsi alla misura del cuore di Dio!
Ciò che siamo è… niente! Come niente rimane da vedere in quella tomba vuota, nessuna istantanea, nessuna reliquia della resurrezione a uso e consumo della nostra povera fede. Giusto il tempo di una manciata di battute con un paio di angeli, un giardiniere che poi non è un giardiniere ma si scoprirà essere niente di meno che il Risorto stesso, e siamo spediti via. Però forse è proprio un giardiniere, e noi viviamo tutti in un nuovo giardino divino! E siamo da allora più che mai faccenda sua: il nostro vuoto è spazio accogliente, rigenerante, misericordioso. Ostensorio dell’amore di Dio! Altro non ci interessa, e con nient’altro (foss’anche sacro…) siamo disponibili a confondere o barattare questo.