Dell'utilità dei compiti
«I compiti vanno fatti a scuola così i bambini sono felici». Lui si chiama Nicolas, ha 7 anni e le idee chiare. Proprio come le parole, scritte in stampatello sul suo quadernone, che rilanciano un tema da sempre tra i più dibattuti da studenti, insegnanti, genitori, educatori, neuropsichiatri, studiosi e persino ministri della Repubblica, con delega in particolare all’Istruzione.
«Compiti sì o compiti no?» è argomento, che, ciclicamente, un po’ come accade per i corsi e i ricorsi storici, torna alla ribalta. È accaduto durante la didattica a distanza che ha costretto, a causa delle restrizioni imposte dall’emergenza sanitaria, milioni di studenti a fare scuola da casa e non nelle aule del proprio istituto, a seguire le lezioni attraverso lo schermo del proprio pc e non in classe con i propri compagni e professori.
La didattica a distanza non ha fatto sconti nemmeno per i compiti che, in molti casi, sono aumentati, provocando un sovraccarico di lavoro che ha visto i ragazzi gravarsi dello studio di argomenti nuovi senza che essi fossero prima spiegati dal docente, a causa del ritardo sul programma stabilito.
La discussione sul tema dei compiti, che è poi cartina di tornasole per uno sguardo più ampio sul pianeta scuola, vede posizioni pro e contro tra insegnanti, genitori e pure tra gli alunni. Il dibattito impone di andare oltre e chiedersi quale sia realmente il ruolo dei compiti e, di conseguenza, quali e quanti compiti sia giusto dare.
«Basta compiti!»
Tra i fautori di un drastico ridimensionamento dei compiti per casa c’è Maurizio Parodi, dirigente scolastico di lungo corso a Genova, da qualche settimana in pensione. Parodi è il fondatore e il portavoce del movimento «Basta compiti!». Da anni conduce una battaglia per cambiare l’approccio delle consegne a casa.
La sua petizione su change.org per abolirle ha raccolto oltre 36 mila firme. «Quello che auspichiamo – afferma Parodi che, di recente, ha inviato una lettera al ministro per l’Istruzione, Patrizio Bianchi – è la disponibilità di docenti, dirigenti e degli organi di gestione della scuola a valutare la proposta di non dare più compiti per casa, senza pregiudizio, guardando al benessere e alla crescita culturale dei giovani loro affidati.
Per esperienza diretta, i docenti operano spesso in una situazione di reciproca ignoranza: non si curano di sapere quanto gravoso sia il carico di lavoro complessivo; ciascuno assegna i propri compiti come fossero i soli da svolgere e gli studenti, fin dalla primaria, si ritrovano fino a tarda sera chini su libri e quaderni, con genitori costretti a svolgere il ruolo, improprio, di insegnanti di complemento, aggravando la condizione di chi proviene da famiglie culturalmente ed economicamente svantaggiate».
Il movimento chiede di aprire un dibattito a più voci per mettere a punto una «riforma»: «Sarebbe a costo zero, senza alcun onere economico e permetterebbe di ridurre la distanza che ci separa drammaticamente da altri Paesi, non solo europei, nei quali alla ridotta assegnazione (o alla totale assenza) di compiti a casa corrisponde l’acquisizione di competenze incomparabili rispetto agli “standard” del nostro sistema scolastico, per non dire dei tassi di analfabetismo funzionale, dispersione e insuccesso delle fasce più deboli».
Sì all’autonomia
Il ruolo dei compiti è correlato al lavoro fatto a scuola. Ma affinché essi siano efficaci è necessario un feedback da parte dei docenti: così viene riconosciuto un valore all’impegno richiesto dagli insegnanti che, a loro volta, hanno ulteriori strumenti per intercettare interessi, curiosità e anche disagi e difficoltà.
Lo stesso Miur, ministero della Pubblica Istruzione, propone Modi, acronimo di «Migliorare l’organizzazione didattica», un programma adottato da diverse scuole con l’obiettivo non tanto di eliminare i compiti a casa, quanto di migliorare l’organizzazione didattica, in particolare la gestione concordata dei tempi di apprendimento, e la personalizzazione delle metodologie che favorisce l’inclusione. Esiste una rete di classi e di insegnanti che aderiscono al progetto, oltre a numerosi movimenti di genitori e anche insegnanti schierati a favore o contro i compiti.
Fermamente convinta del valore dello studio individuale, dell’esercizio e, comunque, delle «prove», è Enrica Zanon, docente di Italiano e Latino in un liceo di Cittadella (Padova): «I compiti sono decisamente utili per consolidare le conoscenze che si sono acquisite in classe. L’applicazione da parte dello studente è uno dei requisiti fondamentali per approfondire un argomento, per farlo proprio, per coltivare la capacità critica. A patto che poi ci sia un altrettanto fondamentale confronto con il professore, una risposta, una restituzione rispetto a quanto si è cercato di discernere. L’autonomia va sollecitata, incoraggiata. Anche se questo comporta l’errore, il brutto voto, il mettersi in discussione. Come pensiamo che gli adolescenti possano avventurarsi nel mondo se non li lasciamo fare e pensare da soli? E quale autonomia proponiamo, se poi i genitori a casa controllano tutto quello che i loro figli devono fare? Una volta, se facevi o non facevi i compiti era un tuo problema che dovevi risolvere nel personale rapporto con gli insegnanti e nel quale i genitori entravano soltanto in casi di eccezionale gravità e solo su espresso invito dei docenti».
Sull’importanza dello studio e dell’applicazione costante da parte degli studenti insiste, in maniera analoga, anche se per una questione diversa, il mondo accademico che, di recente, ha scritto al ministro Bianchi chiedendo la reintroduzione delle prove scritte ai prossimi esami di maturità, svolti negli ultimi due anni con un maxi colloquio orale a causa della pandemia.
A questi temi ha dedicato libri, studi, interviste e lezioni anche sui social la professoressa Daniela Lucangeli, professore ordinario di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione all’Università degli studi di Padova. «Il punto non è se assegnare o meno i compiti – afferma la docente nelle sue lezioni –, ma quali e quanti assegnarne. I compiti non possono sostituire l’apprendimento del tempo-scuola, né tanto meno ciò può essere delegato solo alle lezioni assegnate a casa. Che sono un supporto all’apprendimento, costituiscono una fase di consolidamento e stabilizzazione di quanto si inizia a imparare in classe. Compito del docente deve essere quello di affrontare ogni obiettivo discutendone con i ragazzi, facendoli ragionare, offrendo strategie per apprendere sempre meglio. I metodi sono molti: dalla discussione di gruppo al cooperative learning, fino al tutorato tra pari. I compiti a casa vengono dopo, solo per consolidare quanto già appreso in classe».
La scintilla che accende
«Quando fu inventata la parola scuola – spiega Vanessa Roghi, storica e ricercatrice, autrice di documentari per RaiTre e per anni insegnante di Lettere all’Università La Sapienza di Roma, che ha di recente pubblicato il volume Voi siete il fuoco (Einaudi Ragazzi) – essa stava a significare, incredibile a dirsi, “tempo libero”: skholé è infatti parola greca che sta a indicare che solo nel tempo libero dalle necessità materiali, ossia dagli impegni, è possibile occuparsi della propria anima, costruire la propria personalità, ragionare, imparare, crescere. Al tempo libero della skholè i greci contrapponevano il tempo senza scuola: quello del lavoro.
Nel tempo della scuola si sviluppava la critica, krisis. La scuola era vista, allora, come quel luogo, quel momento nel quale, tramite la critica, l’essere umano cresce e impara a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, ciò che è bello da ciò che non lo è e, soprattutto, impara a farlo con gli altri, i compagni e i docenti, attraverso il dialogo, lo scambio, il confronto».
La scuola è un universo più che mai complesso e variegato. «Vi si incontrano infiniti mondi – continua Roghi –, ma è nell’incontro tra insegnanti e allievi che nasce la scintilla, il guizzo che accende il fuoco dei ragazzi. Come scriveva Plutarco: “La mente, non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma piuttosto, come legna, di una scintilla che l’accenda”. La scuola occupa gran parte del tempo dei nostri ragazzi, almeno dai 3 ai 19 anni. Il ruolo del maestro, dell’insegnante, è questo: nel confronto, nel dialogo, nelle risposte, in raccordo con la famiglia, creare le condizioni, dare gli strumenti per far “fare questo salto anche se la strada è in salita” come cantano i Maneskin in Zitti e buoni».
La scuola, conclude Roghi, «possiamo pensarla come un luogo nel quale, anche attraverso i compiti, le prove, la fatica, sempre in un clima di dialogo, vengono messi a disposizione tanti fili di colori diversi. Sta ai ragazzi trasformarli in qualcosa di originale, di bello, in cui finalmente riconoscersi».
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