Dire il perdono
È come se il perdono abitasse un luogo che confina con il nostro mondo, e a volte passasse il confine per prenderci la mano e portarci di là, a guardarci intorno con uno sguardo più limpido e libero. C’è un frammento di parole spezzate che Maria Rosaria Schifani, moglie di Vito Schifani, ucciso con Giovanni Falcone al quale faceva scorta, pronunciò al funerale del marito: «Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, però, se avete il coraggio di cambiare... loro non cambiano, ... di cambiare i vostri progetti mortali, che avete». Sono scolpite nella storia del nostro Paese e abbiamo tutti sentito che erano parole umanamente impossibili eppure vere, che venivano da un luogo in cui lei aveva accesso, con tutto lo strazio e la grazia del momento. Il perdono e insieme la giustizia, il riconoscere che è un abisso di male quello che è stato fatto, questo vuol dire inginocchiarsi. C’è l’aldiquà del nostro viver male e insieme l’aldilà di uno stato nel quale è possibile essere liberi dall’odio. Abbastanza.
Il dono è uno scambio disinteressato, qualcosa per cui non si cerca vantaggio e non c’è scambio. Il prefisso «per» è un rafforzativo, per cui perdono può essere inteso come dono totale, un donare per grazia pura. Ma il perdono va sempre bene? Il Vangelo dice settanta volte sette, cioè sempre, infinitamente, si perdona. Lo dice Gesù in un testo che possiamo sentire iperbolico, cioè esagerato, perché sappiamo che l’espressione settanta volte sette oltrepassa il conto che possiamo fare, vuol dire sempre, all’infinito.
Nel romanzo Donne che parlano (di Miriam Toews, editore Marcos y Marcos) si racconta la storia vera di un gruppo di donne mennonite per anni narcotizzate e violentate nella notte da uomini della colonia in cui vivevano. Le violenze riguardano anche bambine e bambini. Quando la cosa viene scoperta, gli anziani della colonia, in base alle rigidissime regole di fede applicate alla vita di tutti e tutte, danno loro due giorni di tempo per decidere di perdonare i colpevoli. Se non lo faranno saranno allontanate perché trasgredire il comandamento del perdono significa essere automaticamente colpevoli ed escludersi dalla vita eterna. Il libro racconta il serrato dialogo di queste donne, piene di fede e di dolore. Alcune dicono che non riescono a perdonare gli uomini. Dichiarano l’umana impossibilità. Si chiedono se sia perdono un perdono forzato. Ma nessuna vuole rinunciare alla fede. Finché una delle donne si chiede: «Se esistesse una categoria di perdono che spetta solo a Dio, una categoria che comprende la violenza sui propri figli, un atto talmente imperdonabile per un genitore, che Dio, nella Sua saggezza, si assumerebbe la responsabilità esclusiva di quel perdono?».
Il dialogo prosegue tra slanci e paure e dolore, due giorni e due notti di confronto tra donne analfabete, la cui sapienza viene sì dalla Bibbia, ma filtrata da un patriarcato chiuso, prevaricatore, autoreferenziale. E però sentono che si gioca tutta la vita nella loro decisione. Restare, perdonare, avallare il male che è stato, oppure andare ed esporsi al male dell’odio, della fede, così come la conoscono, tradita. Oppure il perdono può avere anche la natura nuova e più larga di un perdono che comprende anche il loro andare. Non è scontata la decisione che prenderanno. E intanto ci sono i bambini che queste donne aspettano senza nemmeno sapere da chi, con l’unica assoluta certezza che non vengono dall’amore ma dalla volontà di possesso di uno degli uomini della colonia. Eppure tutte le donne, tutte, danno per scontato di prendersene cura. E lo amano. Mistero assoluto di un amore per Dio che diventa amore per tutti, assolutamente tutti.
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