È nato lungo la via

I cristiani, negli Atti degli Apostoli, sono «quelli della via». San Francesco definisce Gesù «nato per via». Celebriamo la via, allora, in questo Natale.
23 Dicembre 2021 | di

Passi incerti, passi di futuro

Un bimbo cammina barcollando, inciampa, cade, corre e quando cade è sempre per rialzarsi: è ostinato, tenace, imperterrito nella sua voglia di raggiungere l’obiettivo, incurante dei pericoli, dei rischi e dei bernoccoli. Ciò che mi affascina dei bambini è l’incarnarsi in loro di tutte le possibilità: non seguono nessuna logica, ma solo le molteplici possibilità che intravedono in ogni cosa; sono visionari appassionati di quella vita che stanno imparando a scoprire. Nella possibilità che si apre davanti a loro c’è tutto il futuro, un futuro aperto, un futuro libero, che non ha bisogno di definizioni o di strutture. Sono loro a tenere per mano il nostro avvenire, sono loro che ci aprono le porte chiuse del futuro, quelle porte che noi abbiamo sprangato con le filosofie e le religioni, con le mille precauzioni e gli infiniti calcoli. «Tutti vogliono crescere nel mondo, ogni bambino vuole essere uomo. Ogni uomo vuole essere re. Ogni re vuole essere “dio”. Solo Dio vuole essere bambino» scriveva Leonardo Boff.

Incontreremo un Dio bambino, sarà Lui, ancora una volta, a metterci in cuore la speranza che tutto è sempre possibile e che la logica della vita è più potente di ogni nostra certezza e di ogni nostro calcolo. Sarà un Bambino a prenderci per mano e noi, fiduciosi, a lasciarci guidare, nel sovvertimento felice di ogni razionalità, nell’incoscienza di affidarci a una fragilità dove tutto è ancora e sempre rea­lizzabile. Non è facile credere in un Dio Bambino, disarmato e vulnerabile. Non viene spontaneo, a noi oculati adulti, provare ancora meraviglia e incanto, e sperare nella forza vivace e innata di un bambino. Credere in un Dio così vuol dire credere all’esuberanza della vita, alla prepotente fiducia di un instancabile e appassionato esploratore di ogni possibile bellezza.

Passi di dolore, passi di nostalgia

Ci coglie la nostalgia: e siamo tutti migranti in cerca di una terra, tutti indistintamente soli e in cammino verso la nostra terra, che scolora in lontananza, ma che intravvediamo come attraverso una nebbia. La storia ce lo insegna e l’attualità ce lo rende ogni giorno drammaticamente presente che, per raggiungere la terra dell’umanità, c’è da attraversare un mare: vasto, profondo, rabbioso, inospitale e spesso nemico. E anche noi, che attraversiamo il mare profondo e implacabile della vita, vorremmo raggiungere quella dimensione che ci appartiene, che è nostra, eppure sembra ormai così lontana. E, come migranti, mettiamo il nostro dolore su una barca.

Quando sembra che l’acqua ci sommerga, quando tentiamo a fatica di riemergere dall’apnea in cui ci costringe la vita quotidiana, intuiamo, spesso solo con l’intelligenza del cuore, che c’è una terra che ci aspetta. Una terra promessa. Non amo la parola sacrificio, mi sembra troppo alto, quasi irraggiungibile: amo la parola «sforzo», quello dei contadini e della gente semplice, quello del parto. È un lento venire alla luce quello dell’uomo, è promessa di un futuro incerto, fragile, faticoso. È seguire la luce, o forse un inseguire la luce. Che non può farsi da seduti, perché implica lasciare la propria riva per un’altra riva e accettare di dover continuamente partire.

Passi quotidiani, passi di attesa

La nostra generazione è giunta a quel limite ultimo in cui tutte le nostre figure sono consunte, le ragioni di vivere non sono più evidenti, i valori non hanno più significato, gli ideali un cumulo di parole. Stiamo vivendo l’esperienza del «vuoto» e per questo più che in altri tempi ci viene chiesta l’umiltà di accettare il crollo di tutte le speranze, di affrontare con fiducia l’inaccettabile. È una «notte oscura» quella che stiamo vivendo, probabile preludio – come un’esperienza dei mistici – di un risveglio inatteso della coscienza umana, da uno stato di assopimento a una vigilanza amorosa, a un’apertura all’imprevedibile, all’Adventus.

«Vigilare è essere aperti alla vita» dice sant’Agostino e noi siamo in attesa di qualcosa di nuovo, in attesa di qualcuno che arriva sempre, ma la cui presenza viene accolta soltanto da coloro che hanno il cuore e gli occhi attenti e vigilanti, abituati a intuire la luce tra le ombre e l’oscurità, avvezzi a penetrare l’intimo segreto delle cose. Non abbiamo verità da affermare, non abbiamo cose da difendere o possedere. Siamo in cammino verso l’assoluto.Gesù con la sua vita ci dice che Dio è vicino a coloro che hanno fame, che provano dolore, che conoscono lo struggimento, che non si adattano, che non sono appagati da ciò che esiste, che hanno il coraggio di attendere qualcosa che non è mai esistito prima, che anelano a un altro mondo perché già lo portano nel proprio cuore, perché ne hanno bisogno per poter essere umani, perché ne hanno bisogno per poter vivere.

Lasciami entrare, / Per ritrovare la vita che hai perduto vivendo, / La saggezza che hai saputo sapendo. / Lasciami entrare, / A benedire il peccato, la vanità, il rimorso e la tristezza, / A benedire il tuo spirito curvo e la tua carne offesa. / Lasciami entrare, / A cercare nel tuo silenzio la coscienza sepolta, / Il tuo sospiro amaro. / Lasciami entrare, / e passare nel cuore di tutti i tuoi tormenti, / Perché tu ritorni a volere davvero quel che lo Spirito sogna. / Lasciami entrare, / A mendicare un po’ di pane / nella tua stanza senza fuoco. / Riscoprano i tuoi occhi la luce che ha il mio volto.

Passi vagabondi, passi in cerca di senso

Conosciamo bene i tempi virtuali, le notizie di sintesi e per questo veloci, conosciamo i commentari, ma non amiamo gli sforzi, la voglia di ricercare il senso delle cose, non valichiamo con coraggio il mistero del silenzio e del non capire. Non vogliamo passare dal difficile parto della vita, che ci chiede di non programmare, di non sapere, di restare immobili e tremanti ad attendere. Nel parto le contrazioni sono come onde che si infrangono su un corpo squassato, che si susseguono e lasciano esausti. Non c’è casa, non c’è riparo al succedersi di quelle onde: e sembra così inutilmente penoso. In un attimo, poi, la vita, e tutto prende senso.

Il nostro vagabondare è così simile a quelle onde, il nostro viaggiare con i piedi graffiati e sporchi di terra potrebbe davvero essere un preludio di vita, quando ci viene chiesto di semplicemente andare, di fiduciosamente percorrere viottoli e sentieri che scorticano e feriscono. Tutte le preghiere mi spingono e mi sussurrano: «Destati! È l’ora di andare». Andare lasciando il nostro peso alla terra, affidandoci a quella forza e a quel coraggio. Siamo partiti con cuori leggeri fuggendo l’infinito che in noi si nascondeva, siamo andati lontano inseguendo noi stessi. Il cammino passa tra i capillari della vita, produce fatica, porta al limite estremo delle nostre forze. Ma andiamo con faticosa leggerezza, con paziente agilità, con calcolata ispirazione: portiamo lontano la terra ed essa ci porterà vicini a noi stessi. Sarà lì che riabbracceremo la nostra vita, lì che daremo un bacio a ogni ferita.

Passi stanchi, passi nudi

Invecchia chi smette di cercare, chi si fa prendere dall’impotenza, dalla stanchezza e dalla paura: per questo mi abituo al deserto, all’essenzialità e alla guida delle stelle, allo stupore di essere vivo e a cantare i miei amen con forza.Le lancette segnano l’ora del coraggio, del far cadere ancora semi senza la paura delle cose che nascono e crescono, è l’ora di curare le mie ferite, le mie slogature, e come Giacobbe dopo aver lottato tutta una notte, l’ora di spogliarmi nudo al cospetto del Dio vivente. Addolcisco le ore con la manna di un giorno che sembra il primo, perché rinascano nuovi profumi e spazi, carezze e stupore per recuperare tutti gli anni trascurati e non perderli nel vuoto.

Dopo questo sogno di vita aspetto l’alba senza affrettarla e invece di guardare la terra promessa dall’alto, come Mosè, voglio tenere gli occhi fissi sul roveto ardente di un’eternità che brucia, ma che non mi consumerà. Vorrei togliere l’ombra dal mio amore prima che il tempo si consumi. Vorrei lentamente lasciare meno spazio a ogni luce che viene dall’esterno e far crescere quella che naturalmente è in me. Vorrei che ogni giorno mi consolasse l’aurora, affinché la morte si stanchi nell’attesa e sia più lieve. Vorrei che il tempo mi scorresse come acqua tra le dita per guardare l’altra faccia delle ore e dei giorni e vedere il Figlio dell’uomo che ascolta il solitario arpeggio della mia anima impaurita.

Gesù, / Tu che non ti lasci ingannare dall’esibizione delle nostre virtù, / né disgustare dai nostri vizi manifesti o segreti, / raccogli ciò che il male sciupa e poi abbandona. / Gesù, / Tu non sopporti spazi angusti, aria viziata, luce violenta. / La tua presenza è un soffio, è una forza, è un canto / che ci toglie la paura di osare e ci ridona il nudo esistere. / Gesù, / figlio della debolezza disarmata, figlio dei giorni senza sole, / figlio delle notti senza stelle / guarda i nostri occhi che ti amano segretamente. / Gesù, / Tu che conosci l’estrema gioia e l’estremo dolore / raccogli ogni uomo affamato e assetato di vita. / Donaci il tuo cuore che non risparmia calore. / Gesù, / dove abita l’odio, il calcolo, il voler possedere, / rendici costanti come un eremita paziente, / e pacifici come un profeta che lascia  allo Spirito tracciare il cammino.

 

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Data di aggiornamento: 23 Dicembre 2021

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