Faccia a faccia con Buba
Stavo lavorando da tempo al progetto dedicato ai migranti richiedenti asilo, ospiti delle strutture di accoglienza nel nord Italia. Nonostante fossi ben introdotto in quel mondo, a volte sentivo il bisogno di abbassare la fotocamera per dar spazio al dialogo. Buba quella mattina non aveva molta voglia di confrontarsi, avvolto nella sua timidezza non perdeva occasione per allontanarsi dalla scena. Non ero interessato a una fotografia asettica e rubata, avevo bisogno dei suoi movimenti graziati, del suo parlare, delle sue storie raccontate a bassa voce. Senza il suo coinvolgimento, il messaggio che volevo trasmettere avrebbe perso forza e si sarebbe afflosciato alla prima folata di vento. Con la mia fotografia dovevo essere univoco, senza fraintendimenti, i suoi occhi dovevano emergere dal viso e urlare con tutta la forza repressa che aveva dentro. Non potevo forzare la situazione, non volevo diventare un fantasma a caccia di sguardi. Avevo bisogno di un confronto, faccia a faccia. Volevo mettere a fuoco i suoi occhi.
Decisi di riporre la fotocamera nella borsa e spogliarmi della veste di fotografo. Mi sedetti a un tavolo all’interno della struttura, non mi misi di fronte a lui, non volevo guardarlo negli occhi, non era ancora il momento. Ci bevemmo un caffè, poi una sigaretta in piedi, fuori dalla porta principale dell’edificio che ospita i ragazzi venuti dall’Africa. Ce la fumammo lentamente quella Camel gialla, con la passione e il coinvolgimento di un rito atavico che avviene solo all’ombra delle acacie della sua terra. Il muro tra me e Buba si stava sgretolando, ma non volevo entrare prepotentemente nella sua intimità, mi interessava lasciare intatta la sua anima, per meglio contestualizzarla in questa sua nuova terra, ancora sconosciuta, a tratti incomprensibile e forse troppo lontana.
Oltre un vetro, il giusto compromesso psicologico di protezione per chi ha ancora paura ad affacciarsi alla finestra. Il riflesso di un mondo sfocato e ignoto, dove tutto toglie il respiro, rendendo la vita solo un affanno. Prova a difendersi Buba, allunga il braccio e appoggia la sua mano allo scudo artificiale di una vetrata appena lucidata. Prova anche ad attingere un briciolo di calore nell’intimo di chi gli è amico, cerca un conforto e forse la sicurezza negata di cui ha bisogno. I due mondi provano a fondersi nel gioco di un riflesso. Parla piano Buba, accenna un sorriso fatto di speranza, poi abbassa il capo e ripensa alla sua terra.
Sono passati anni da quella mattina, da quella fotografia. Ma nulla è cambiato. Buba, vittima della burocrazia italiana, è ancora in attesa di sapere quale sarà il suo futuro.