In «franchising» con Dio

Il Libro dei Libri ha ancora molto da raccontarci. Parola di Paolo Cevoli che, con il suo ultimo spettacolo teatrale, porta in scena la Bibbia.
16 Agosto 2018 | di

È il Libro dei Libri. Indiscusso best seller, se ne continua imperterrito a svettare in cima alle classifiche dei libri più letti al mondo. Gli fa un baffo pure il peso degli anni, visto che non ha mai smesso di far parlare di sé.

La Bibbia è una delle grandi narrazioni che riescono ancora a stupire, regalandoci sorprese inedite, interpretazioni impensate, chiavi di lettura mai scontate, tanto da farci ammettere che, forse, non lo conoscevamo così bene come pensavamo. Quando si ritiene di averne scandagliato ogni minimo anfratto, ecco la scoperta.

Chi avrebbe mai pensato che la Bibbia potesse avere un lato comico? Che potesse svelarci misteri, segreti, particolari di cui nessuno ci aveva mai parlato o che non avevamo colto? O che qualche personaggio non fosse poi così buono e qualche altro davvero così cattivo?

E che il best seller dei best sellers fosse pure un grande affresco pop che ritrae drammi umani e ansie quotidiane, dalle violenze famigliari ai litigi domestici, dagli adulteri al profitto e alla scalata al potere a tutti i costi, antichi eppure mai così attuali?

Un viaggio nel grande Libro, certamente non facile ma divertente, leggero e alto, ironico e profondo, tutto fuorché dissacrante o dissacratorio, come in prima battuta si potrebbe pensare, l’ha compiuto Paolo Cevoli col suo spettacolo «La Bibbia raccontata nel modo di Paolo Cevoli», regia di Daniele Sala.

Dopo impegni vari sul piccolo e grande schermo, l’attore comico (o meglio, «un imprenditore con l’hobby del cabaret», come si definisce) porta in scena Dio, e non solo, con la sua quarta produzione teatrale

Prossimi spettacoli: 23 agosto, Meeting Rimini; 6 settembre, Bareggio (MI); 9 settembre, Levico Terme (TN); 14 settembre, Piacenza.

La Bibbia in modalità Cevoli. Qual è il registro scelto per il racconto? Ovviamente l’ironia, anche se non avrei mai pensato di «leggere» questa grande opera dal punto di vista comico. È stata un’esperienza complessa, impegnativa, bella. Il registro è quello della grande favola che parla della storia dell’umanità. Ho scelto l’ironia per mettere in scena la scaltra Eva, il sempliciotto Adamo, il padre debole o, come diremmo oggi, «fallito» del figliol prodigo, il figliol prodigo che scialacqua il patrimonio di famiglia andando a prostitute, l’altro figlio un po’ «patacca», lo sfortunato Giobbe deriso dalla moglie o il furbetto Davide. Ironia che, tradotta «a modo Cevoli», significa delicatezza, misura e rispetto per ogni personaggio e la sua storia.

Una chiave di lettura che potrebbe sembrare dissacrante. Il mio non è uno spettacolo contro. Non uso la chiave ironica per banalizzare il grande racconto dell’Antico Testamento. Io non dissacro, anzi. Chi dissacra fa un’operazione esattamente contraria: prende una cosa bella e la getta nel fango. Io cerco, invece, di partire dal basso, dalle imperfezioni, dall’umanità, da uomini buoni che così buoni non sono o da cattivi poi non così cattivi per portarli in alto. Il sacro lo tratto con grande, grandissimo rispetto.

Perché? Rispondo con la frase che mi ha detto una ragazza tunisina venuta a vedere il mio spettacolo a Concorezzo (MB). Con lei anche altri giovani, cinesi, egiziani, di varie nazionalità e religioni, per lo più musulmani. A fine serata mi hanno salutato dicendo che si erano molto divertiti. La ragazza ha, poi, aggiunto: «Quello che mi ha più colpito è che tu devi essere davvero in confidenza con Dio per poterci scherzare sopra senza offendere». Con questi ragazzi ho poi iniziato un percorso di dialogo e confronto che continua anche oggi.

Quando inizia… tutta questa confidenza? Sono nato in una famiglia credente e praticante. Da bambino andavo in chiesa e facevo il chierichetto. È una «frequentazione» che ho sempre mantenuto.

Come se la cavava con la Bibbia prima dello spettacolo?  L’avevo letta come tutti.

E dopo? Come si è preparato per metterla in scena? Ci ho lavorato per almeno un anno e mezzo. Ho cercato di studiarla con un teologo, confrontandomi con cattolici, ma anche con protestanti e alcuni rabbini, che sono i più divertenti. Volevo capire fino in fondo, non a senso unico.

Lo spettacolo pone domande più che dare risposte. Sono partito dallo stesso atteggiamento di quel bambino che a papa Francesco, che lo teneva in braccio, ha chiesto: «Ma perché se Dio è buono, io sono malato?». Con quanto accade nella Bibbia è impossibile non chiedersi: «Perché Dio permette sofferenza, dolore? Perché non tutto è perfetto? Perché noi siamo fallibili, fragili, peccatori, violenti, spregevoli? Dio, allora, è buono o cattivo?».

Intanto, nello spettacolo, Dio porta in scena alcuni grandi personaggi biblici. Non è che  si diverta un po’ pure Lui? Dio è il «capocomico» per eccellenza. L’ ironia è racchiusa nella delicatezza potente con cui tratta i personaggi, e noi uomini. È la carezza con cui si prende cura dei suoi figli. Ho imparato molto da questo «faccia a faccia» con la Bibbia.

Facili a dirsi i suoi disegni, più difficili talora da capire. Sventure, sofferenze e crudeltà hanno un senso anche quando Dio ci sembra crudele, cattivo. Shakespeare, in Re Lear, dice che Dio si diverte con noi a giocare come fanno i monelli con le mosche.

Vale a dire? Parto da un fatto personale, accadutomi proprio in questi giorni e che forse può spiegare meglio quanto affermo: la morte di mio cognato. Si è sentito male, all’improvviso. Ad accorgersi del malore il figlio più piccolo, Andrea, che ha dato subito l’allarme, anche se ormai non c’era più nulla da fare. Per me Francesco era come un fratello. Da piccolo anche lui andava in chiesa. Poi, per molti anni, ha scelto altre strade rimanendo lontano dalla fede. Fino a qualche tempo fa, quando, grazie a un barlume per tutti inaspettato, se n’è riavvicinato. Come sono misteriosi i disegni di Dio! In questo fatto personale ho colto il guizzo ironico di Dio, quella delicatezza per cui il Padreterno, così mi è venuto da pensare, l’ha voluto prendere subito e «buono».

C’è un personaggio che ha voluto, da subito, portare in scena? Giobbe. È la figura che, più di altre, si avvicina a quell’interrogarsi continuo che esce dallo spettacolo. Per me è stato facile immedesimarmi. Giobbe è il tipo che si fa domande e non si sottrae al loro incalzare. Proprio come quel bambino tenuto in braccio dal Papa, anche lui si chiede: «Ma se Dio permette tutto questo, allora ci vuole bene o ci vuole male?».

Qualche altro, scoperto con il procedere dello studio del testo? Abramo è tra le figure più simpatiche. Ha una grande personalità. È un uomo che parla con Dio, ha un filo diretto. Anzi, io amo dire che è in franchising con Lui. 

Bibbia come grande narrazione pop. Che cosa significa? Come dice un mio caro amico prete, Dio si è incarnato, non «incartato». Ha deciso di non diventare un libro scritto, ma una persona in carne e ossa. Nemmeno Gesù ha scritto niente, anche perché non sapeva scrivere. Se ci pensiamo bene, la maggior parte delle storie della Bibbia sono state tramandate dagli antichi ebrei attorno a un fuoco. Se questo non è pop!

Comici si nasce o si diventa? Era così anche da piccolo? Sono sempre stato così. Ho preso da mio padre che amava raccontare barzellette e fare battute in continuazione.

Sorridere e far sorridere è tutto fuorché semplice. Come dare un senso al mistero?  C’è un’unica risposta. La lascio, a fine spettacolo, allo spettatore. La chiave è l’ironia, la delicatezza, meglio ancora la leggerezza. Mi viene in aiuto il racconto di Elia, il profeta che parla con Dio nel silenzio. Elia non sa come riconoscere la Sua presenza. Si rifà, allora, alla tradizione del suo tempo e aspetta che Dio gli parli attraverso qualche evento atmosferico: un uragano, un terremoto, un fuoco. Ascolta l’uragano, ma non sente nulla. Così con il terremoto e con il fuoco. Nulla. Perché Dio parla al cuore. E lo fa «nel sussurro di una brezza leggera». Un soffio. Perché Dio è delicato, non impone. Dio è Padre. 

Data di aggiornamento: 16 Agosto 2018
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