Frate Alessandro. Il tenore di Assisi
Alessandro Giacomo Brustenghi non è solo un frate francescano minore, è anche un tenore di musica religiosa. Nato il 21 aprile 1978 a Castiglione della Valle, un paesino d’origine medioevale di appena 500 anime che dista solo 18 chilometri da Perugia, frate Alessandro ha cominciato a studiare musica all’età di 9 anni, con il desiderio di diventare un compositore. Ha iniziato gli studi di organo al conservatorio a 14 anni, prendendo parte, allo stesso tempo, a diversi cori e iniziando poi anche gli studi di canto lirico. A 21 anni è entrato nell’Ordine francescano e ha prestato servizio per diversi anni come cantore presso la Basilica di Santa Maria degli Angeli ad Assisi, dove ha lavorato anche come falegname e restauratore. Alcune delle sue registrazioni sono state presentate a Mike Hedges (produttore degli U2, Dido, The Cure, Manic Street Preachers, e altri) che, dopo aver sentito la sua voce, gli ha offerto la possibilità di realizzare un album di musica sacra, sia tradizionale che contemporanea, presso gli Abbey Road Studios di Londra. L’album con cui frate Alessandro ha debuttato è intitolato Voice from Assisi, e contiene i canti Panis Angelicus e Sancta Maria. In conformità con i suoi voti religiosi, frate Alessandro ha donato il ricavato dei suoi cd alle missioni dell’Ordine dei Frati Minori.
Msa. Quali sono state le tappe più importanti della tua formazione artistica?
Brustenghi. Dopo aver ascoltato delle registrazioni di Bach, volevo suonare l’organo e diventare un compositore. Ma ascoltavo anche Michael Jackson. I miei genitori mi fecero prendere lezioni private, e dopo alcuni anni mi sono iscritto a un istituto superiore musicale pedagogico di Perugia. Contemporaneamente alla scuola, ho frequentato anche il conservatorio: una delle esperienze più belle della mia vita. Qui ho iniziato a studiare organo e composizione organistica con l’idea di diventare un compositore. Successivamente ho iniziato a studiare canto.
Attorno ai 16 anni hai sentito che la tua vita era a una svolta. C’era «qualcuno» che ti chiamava. Cos’è accaduto?
A 16 anni ero appassionato di diverse filosofie. Mi ritiravo spesso in solitudine a riflettere. Presto sono caduto in un pensiero idealista e materialista, di tipo solipsistico. Credevo di essere io al centro dell’universo, e che Dio fosse soltanto la proiezione delle mie idee. Da un lato questa concezione mi entusiasmava, ma allo stesso tempo faceva crescere dentro di me una fortissima ansia che alla fine è diventata una forma d’angoscia, fino a quando la vita non pareva aver più senso per me. È a questo punto che il Signore è entrato nella mia vita, quando gli ho dato «un’ultima possibilità». Ricordo bene che gli dissi: «Se veramente esisti, dammi un segno della tua presenza perché altrimenti per me è meglio morire». In quel momento mi trovavo da solo in mezzo a un bosco, e in un attimo il Signore si fece vivo, presente. È stata un’esperienza indescrivibile, forte, mistica, di preghiera, che mi ha fatto dimenticare il resto del mondo. In seguito a questa esperienza, è cambiato totalmente il mio modo di valutare il mondo e la mia vita. In un attimo ho percepito il valore dell’esistenza e dell’amore di Dio, nel quale mi sentivo immerso. Le mie filosofie e i miei pensieri si sono dissolti come il buio con la luce. Ho sentito una voce dentro di me che mi diceva di cercare l’amore di Dio nelle creature, soprattutto nei fratelli e nelle sorelle, dove Lui era presente. Sentivo che veramente ero entrato in relazione con l’«Alterità».
Quando ti sei avvicinato a san Francesco?
Pochi mesi dopo la mia conversione ho visto un film su san Francesco, e mi sono detto: «Voglio vivere come lui!». Avevo solo 17 anni, e mi ero proposto di diventare musicista. Tra i miei progetti c’era anche quello di mettere su una grande famiglia perché volevo tanti figli, come Bach che ne ebbe ventidue. Io ne volevo almeno una decina. Ma al termine della scuola superiore, a 19 anni, continuavo a essere tormentato dai dubbi e così sono andato assieme a un mio amico a parlare con un frate alla Porziuncola di Assisi. Questo frate mi ha poi aiutato nel discernimento. All’inizio non era molto convinto della mia vocazione perché pensava che volessi fuggire dal mondo, e forse c’era un po’ di verità. Così ci siamo presi del tempo. Ci sono voluti un paio d’anni di cammino prima di entrare in convento.
C’è qualche relazione tra il tuo amore per la musica e la tua vocazione francescana?
Certamente, ma l’ho capito con gli anni. Dopo la mia conversione ho interpretato la musica come un canale di comunicazione con Dio, uno strumento per rimanere in contatto con Lui, e anche come un dono, un talento. Tuttavia, dopo essere entrato in convento, avevo deciso di non cantare e di non suonare più. Mi immaginavo in una vita molto più ritirata, di tipo eremitico, anche perché la mia vera e grande passione è quella di lavorare il legno, restaurare mobili e oggetti vari. Quindi non avevo ancora compreso la relazione tra il dono musicale e il mio essere frate. Ma un giorno, un mio superiore (a cui, tra l’altro, piaceva l’opera lirica) mi disse: «Se tu hai una voce così bella, allora, per obbedienza, tutti i giorni dedicherai del tempo alla musica e al canto per la gloria di Dio e l’edificazione del tuo prossimo». Obbedendo, ho capito l’ordine gerarchico delle vocazioni: prima di tutto c’è la vocazione alla vita e alla verità, poi c’è la vocazione all’amore, e solo infine va seguita la vocazione al proprio talento, poiché se non sono state realizzate le prime due vocazioni, l’ultima non ha alcun senso.
Hai inciso il tuo primo cd, Voice from Assisi, presso gli Abbey Road Studios di Londra dove, nel 1962, hanno registrato il loro primo disco i Beatles. Che impressione ti ha fatto?
All’inizio era come un gioco perché mi avevano detto che si sarebbe trattato solo di una settimana di registrazione, due settimane di promozione, e infine sarei stato libero. In realtà, ben presto ho capito che le cose erano molto più grandi di come sembravano in prima battuta, e ho avuto molta paura. Entrare negli Abbey Road Studios è stato fantastico. Era commovente essere nel posto dove era stata prodotta tanta musica con così tanti musicisti di successo. Era bello vedere tutto quello che sta dietro a uno studio musicale. Tuttavia non mi sono riconosciuto in quel mondo. La cosa con cui ho fatto più fatica a convivere è stata la popolarità. Non la volevo minimamente, ma l’ho dovuta accogliere e accettare, anche se per molti anni ci ho proprio combattuto. Poi, col tempo, il Signore mi ha aiutato a capirne il senso: la popolarità è scomoda e non mi piace, però nel mio caso, attraverso di essa, posso aiutare le persone e i cuori che cercano Dio.
Ti sei esibito in teatri importanti e persino alla Royal Albert Hall di Londra. Come riesci a conciliare la vita consacrata con l’attività di cantante?
Innanzitutto, abbiamo accettato di firmare il contratto con l’incoraggiamento del Provinciale, il nostro superiore maggiore. Egli, poi, ha fatto in modo che non fossi solo e mi ha affiancato fra Eunan, un frate irlandese avvocato, esperto di Common Law, cioè di diritto inglese. Fra Eunan era in grado di interfacciarsi benissimo con la casa discografica, la Decca-Universal Music. Assieme abbiamo capito che la popolarità ci esponeva a pericoli, per cui ci siamo messi a tavolino e abbiamo studiato un piano d’azione missionario con dei punti ben precisi. Per esempio, indossare sempre l’abito religioso, anche quando viaggiamo; questo perché non solo ricorda agli altri chi siamo, ma lo ricorda anche a noi stessi. Abbiamo scelto, poi, di non viaggiare mai in prima classe, ma sempre in economy o comunque cercando la soluzione che costava meno. Inoltre non siamo mai stati in alberghi, ma abbiamo sempre chiesto ospitalità nei conventi o nelle case canoniche; questo per mantenere quotidianamente la vita fraterna e per avere assicurata la Santa Messa e la preghiera comunitaria. Altre misure che ci hanno aiutato sono, per esempio, quella di ricevere richieste solo tramite e-mail, cioè di avere tutto scritto nero su bianco, e nulla per telefono; oppure il principio di non accettare nessun concerto e nessun evento senza l’approvazione dei nostri superiori. Con questo codice di condotta siamo riusciti a mantenere un buon equilibrio. Bisogna essere, come dice il Signore in Matteo 10,16: «Prudenti come i serpenti e semplici come le colombe».
Da qualche tempo risiedi nel Convento di Sant’Antonio a Terni. Cosa rappresenta per te sant’Antonio?
Dopo la mia conversione e dopo aver conosciuto bene la figura di san Francesco, ho iniziato, tramite lui, ad apprezzare la figura del Santo di Padova fino a sentire particolarmente vicino questo fratello. La cosa che mi ha colpito di lui è la sua umiltà e la sua straordinaria capacità di essere vicino alla gente comune, motivo per cui è così venerato. Sono stato a Padova molte volte, e mi sono raccomandato a lui chiedendo di salvaguardarmi dal pericolo di ricadere in un modo di pensare troppo complesso e filosofico, perché preferisco ricercare la semplicità sia nelle
idee che nelle parole. Leggendo, infatti, qualche sermone di Antonio, mi sono reso conto che, pur essendo un grande studioso e teologo, non ha perso la sua semplicità. Ora, stare nel convento di Terni, in un certo senso più a contatto con lui, è per me come una sorta di risposta alla mia richiesta di protezione. Lo sto scoprendo, mano a mano, sempre più vicino perché la fraternità si fa vivendo insieme.
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