Genitori al tempo della performance (II^ parte)

Perché essere genitore è diventato così complicato? È possibile un’alternativa, che renda più leggero il compito e più efficace e serena la relazione educativa con i bambini? Pubblichiamo la seconda parte del dossier di settembre.
12 Settembre 2025 | di

Piccoli re

Il fatto che siano tutti figli programmati a tempo, in solitudine, in età adulta, spesso con l’ausilio di cure di fertilità estenuanti, porta a un’altra importante conseguenza: nella prima parte della loro vita questi figli diventano piccoli sovrani, il centro di tutte le attenzioni e dei vizi educativi. «Li si accontenta in tutto, perché non gli si può dare la cosa che madre natura ha scelto come determinante di salute, ovvero il tempo di qualità a misura di bambino nell’accudimento, nella cura e nell’accompagnamento all’età della gestione autonoma». Ogni genitore sa che, pur mettendoci tutto il proprio impegno, ha a disposizione per il figlio solo intervalli, a misura del suo ritmo di vita. E che il tempo che non può gestire personalmente deve essere distribuito in deleghe educative. «Alcune sono deleghe formali, come la scuola – specifica Lucangeli –, altre sono sociali come lo sport o le attività ricreative, altre ancora sono di tipo assistenziale come la nonna o la babysitter».
Il problema più grande è quando a queste deleghe se ne aggiunge un’altra, la più insidiosa, il digital babysitting, ovvero lo smartphone, il computer, il tablet, la televisione. Tutti device che consentono al genitore di distrarre il bambino e di tirare il fiato, ma che possono avere conseguenze imprevedibili sulla sua salute mentale. Le ricerche riportano che l’uso della tecnologia è sempre più precoce e invasivo. L’ultima rilevazione di sorveglianza dell’Istituto Superiore di Sanità sull’esposizione dei bambini dagli 0 ai 2 anni ai dispositivi elettronici e agli schermi retroilluminati ha rilevato che essa riguarda il 22 % dei bambini e delle bambine tra i 2 e i 5 mesi, ma arriva fino al 58 % dei bambini e delle bambine tra gli 11 e i 15 mesi. Il tempo di esposizione sale con l’età e varia anche di molto a seconda della regione, con un netto aumento al Sud.

«Il digital babysitting può innescare il primo grande meccanismo di “sprogrammazione” – continua Lucangeli –. Non solo il bambino è intrattenuto da uno schermo ma vede anche i genitori, che a loro volta hanno bisogno di isolarsi, perdersi nelle loro connessioni tecnologiche, ignorandoli. E così i figli sperimentano l’allontanamento dello sguardo del genitore proprio negli anni determinanti della connessione io-io e dell’attaccamento. Un meccanismo molto profondo perché è una struttura limbica, del cervello antico, un vero e proprio interruttore della salute mentale». Gli esperti chiamano questo fenomeno parental phubbing, dall’inglese phone, telefono, e snubbing, ovvero snobbare, un’assenza in presenza che destabilizza, perché i genitori in questa età sono il principale punto di riferimento. «È uno dei grandi fattori di rischio per la salute mentale – continua la neuroscienziata – perché innesca insicurezza e indebolisce l’attaccamento affettivo, tanto che alla lunga può portare a disturbi dell’umore, dalla depressione all’aggressività».

La grande contraddizione

Ed ecco che si delinea la «grande contraddizione». Da una lato genitori non più giovani, stressati e nel pieno del tempo della performance cercano di essere i genitori migliori possibili, dall’altro figli unici, super viziati, piccoli re che rischiano di essere emotivamente trascurati e addirittura ignorati pur tra mille attenzioni. Di fronte a questo corto circuito, l’atteggiamento degli esperti si divide in due partiti: da un lato c’è chi fa forza sui sensi di colpa dei genitori, sottolineandone le mancanze anche in modo aspro per ottenere una reazione che ridia slancio al loro ruolo educativo, ma con il rischio di aumentare lo stress, l’isolamento e la depressione, che sono tra i fattori alla base della crisi genitoriale, e lasciando nell’ombra le tante concause di questa situazione; dall’altro, al contrario, c’è chi tenta di penetrare la complessità dell’attuale voragine educativa, studiandone le cause e approntando percorsi di consapevolezza e accompagnamento per genitori. Una scelta, però, che è molto più complicata e lunga. «Il problema è che su questi temi di vitale importanza c’è un grande vuoto istituzionale – denuncia Lucangeli – così invece di mettersi insieme per cercare soluzioni condivise e codificate, ogni realtà educativa fa da sé e non è facile per i genitori individuare l’esperienza, e ce ne sono molte nei territori, che può davvero aiutarli».

E così capita sempre più spesso che i genitori rispondano al disagio loro e dei figli prendendo decisioni radicali, molte volte poco maturate e progettate: vanno a vivere su un monte o in campagna, oppure tolgono i figli dai sistemi sociali, optando, per esempio, per le scuole parentali, dove i genitori stessi fanno da insegnanti ed educatori. Non a caso, queste ultime sono cresciute sensibilmente negli ultimi anni soprattutto dopo il covid. Secondo dati del ministero dell’Istruzione, si è passati dai 5.126 studenti istruiti a casa del 2018 ai 15.361 del 2020-2021 e, a sentire gli esperti, la tendenza sarebbe in aumento. «Queste scelte più che risposte ai problemi sono reazioni e quando si reagisce lo si fa per impulso, non con previsione e modulazione. Queste soluzioni offrono una condizione affettiva in cui il genitore è più presente, ma isolano i bambini dai contesti sociali in cui devono imparare a stare. Con il rischio che la toppa nuova sul vestito vecchio, alla fine rompa il vestito».

(Continua...)

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Data di aggiornamento: 12 Settembre 2025

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