Gente di periferia
«Un appartamento in centro costa un occhio della testa», oppure: «Andiamo a fare shopping in centro»: due modi di dire comuni, che indicano, ancora prima che un luogo fisico che possiamo segnare con il dito sulla mappa di una città, un luogo piuttosto simbolico ma esplicito. Si tratta di un’ambizione, un sogno, il bisogno di un’identità riconosciuta. Chi «abita» il centro, anche solo per poco più che uno struscio o un panino da passeggio, può annoverarsi tra coloro che contano e sono realizzati. Ma soprattutto, ed è quel che davvero importa, può distinguersi dagli «sfigati»: tutti gli altri, anzi, la maggior parte (chi appartiene a una élite si rincuora arruolandosi tra i «pochi fortunati») di coloro che stazionano ai margini, lontani dal centro, nelle periferie degradate e abbandonate da Dio. Qui si aggira una tribù subumana di sconfitti, incapaci, sfortunati, indegni, parassiti, se proprio vogliamo andar giù pesanti. Ma senz’altro da queste parti tira a campare il popolino, senza meriti né diritti né aspirazioni, dedito tutto il santo giorno a sotterfugi e ripetuti imbrogli pur di sopravvivere, almeno secondo l’immaginario collettivo. Perché l’immaginario è ancora quello magistralmente raccontato da Charles Dickens nei suoi romanzi ottocenteschi. Nonostante Manzoni e la sua «gente poverella» riabilitata alla Storia.
Sant’Antonio nasce in «centro»; famiglia nobile, ordine religioso rinomato, ricche abbazie, vita invidiabile. Ma, fattosi francescano, si trasferisce letteralmente in periferia. Da un punto di vista abitativo: come tutti i «luoghi» abitati dai frati minori, anche il piccolo conventino di S. Maria Mater Domini era a quel tempo all’esterno delle mura di Padova. Ed extra moenia, fuori dalle mura, era anche l’eremo di Camposampiero e il luogo dell’Arcella, dove vi era un piccolo monastero di clarisse e una casetta dei frati, in cui Antonio morirà. Certo, era un’esigenza anche economica, visto le pressoché nulle finanze dei frati. Ma in realtà era stato lo stesso san Francesco ad aver scritto che era esattamente da queste parti che desiderava stare: lì fuori, dove, al calar della notte, al serrare delle porte, venivano espulsi dalla città poveri, vagabondi e marginali di vario tipo. Del resto, non si leggeva nel Vangelo che anche per Gesù fu così? Non nacque egli proprio in una catapecchia fuori paese? Non morì «fuori della porta della città» (Eb 13,12)? Francesco, che dagli agi e dalle sicurezze di Assisi fu condotto da Dio tra i lebbrosi della piana che si stende ai piedi della città, e perciò da sopra a sotto, da dentro a fuori (oh, lo racconta lui stesso nel Testamento), non volle anch’egli fare altrettanto, chiedendo di essere seppellito sul Colle dell’inferno, il luogo delle esecuzioni capitali, oltre le mura di Assisi?
Un luogo speciale, perciò, quello delle periferie, nonostante il termine per noi infausto. È come se da queste parti circolasse più vita e più Spirito che altrove. Un posto potenzialmente privilegiato, per la misericordia di Dio e per la solidarietà dei suoi figli e delle sue figlie. Un laboratorio di umanità: dove siamo più veri, più fragili e indifesi, gli uni più simili agli altri. Come se solo da qui, da questo privilegiato punto di vista, si potesse vedere bene tutto, senza perdersi nessuno. Periferie geografiche che sono, perciò, anche esistenziali, come ripete papa Francesco. Lo intuiamo dalle persone che Antonio va incontrando, in particolare povere famiglie, donne angariate dai mariti, bambini rifiutati, carcerati, poveri di ogni tipo, ma anche vescovi e prelati indegni. Perché alla fin fine, il confine tra centro e periferia passa nel cuore di ciascuno di noi. E solo nella nostra testa la periferia può tornare al… centro.
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