Hélder Câmara
«C’è voluto tempo, molto tempo, perché i miei occhi riuscissero ad aprirsi, ammesso che oggi siano veramente aperti. È terribile constatare come, in mezzo a tante sofferenze, la cura del mantenimento dell’autorità e dell’ordine sociale ci impedisse di scoprire e denunciare le ingiustizie. Stavamo là a predicare la pazienza, l’obbedienza, l’accettazione delle sofferenze, in unione alle sofferenze di Cristo. Grandi virtù, senza dubbio, ma in quel contesto facevamo il gioco dei dominatori».
Sta tutta qui, in queste poche righe, la sintesi del cammino esistenziale di dom Hélder Câmara, vescovo di Recife, in Brasile. Un cammino che Anselmo Palini ripercorre in modo puntuale e approfondito in questa bella biografia dedicata al «vescovo delle favelas», come Câmara veniva chiamato per la sua incessante azione a favore dei più poveri ed emarginati della città. Pagine in cui la ricchezza documentaristica si accompagna alla gradevolezza dello stile asciutto e veloce, quasi cronachistico, tipico di Palini, autore noto al grande pubblico soprattutto per le sue interessanti biografie (una su tutte: Oscar Romero. «Ho udito il grido del mio popolo», Ave).
Helder Camara fu ordinato sacerdote nel 1931 e nei primi anni del suo ministero aderì convinto all’Azione integralista brasiliana, movimento politico per molti versi di ispirazione sociale-cristiana, ma al contempo molto vicino, nelle sue manifestazioni esteriori soprattutto, al fascismo italiano (il motto del movimento era «Dio, patria e famiglia»: vi ricorda niente?). Un’adesione che gli venne rinfacciata per la vita dai suoi detrattori.
Ma dom Hélder era figlio del suo tempo e, come avvenuto a molti altri prelati latinoamericani illuminati (basti citare Oscar Romero, il santo cardinale di El Salvador, che passò dalle iniziali posizioni quasi reazionarie a quell’annuncio del vangelo dei poveri, che lo condusse al martirio), dovette incontrare da vicino la povertà e i suoi effetti sull’essere umano per capire da che parte stare e abbandonare la paura del comunismo, che allora, in America Latina, era visto come il principale antagonista del cristianesimo. Un travaglio interiore non facile, che lo portò a essere, negli anni della maturità, fortemente contrastato dal potere politico-militare del suo Paese e guardato con sospetto persino da ampi settori della Chiesa.
«Quando aiuto un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando mi interrogo sui motivi della povertà, allora tutti mi chiamano comunista» fu una delle sue frasi iconiche che dicono la sua statura e il suo sogno: quello di un mondo diverso, «basato sulla giustizia, sulla fraternità e sulla pace» e di «una Chiesa aperta allo Spirito, povera e serva del regno». E per questo lavorò incessantemente e, spesso, pagò in prima persona.