Il limite che è in noi
Duecentocinque metri. Tanto distano in linea d’aria il Bosco Verticale e l’Unicredit Tower di Milano. Un percorso che normalmente si copre in pochi minuti e senza tanti sforzi. A meno che non si intraprenda a 140 metri d’altezza… A compiere quest’impresa estrema lo scorso maggio è stato il funambolo Andrea Loreni che, in occasione del Festival BAM Circus, ha eseguito la più alta traversata mai realizzata tra grattacieli in Italia. Un mese dopo la performance dell’equilibrista, nelle profondità dell’Oceano Atlantico, a circa 700 km dall’isola di Terranova, si consumava la tragedia del Titan. Il sottomarino targato Ocean Gate Explorations, che portava al suo interno cinque passeggeri, è imploso mentre tentava di raggiungere il relitto del Titanic a 3.800 mt di profondità. Un’«operazione suicida», «roba da ricchi annoiati» (il viaggio nel Titan è costato 250 mila dollari a persona) hanno commentato in molti. Quel che è certo è che, in entrambi i casi – e con esiti opposti (Loreni è ancora vivo e vegeto, mentre i cinque del Titan sono morti) –, si è trattato di una sfida. L’essere umano ha cercato di superare un limite. E non è certo la prima volta che accade… Il 3 luglio di 70 anni fa Hermann Buhl conquistava per la prima volta la vetta del Nanga Parbat (8.126 mt), la nona montagna più alta del mondo. Sempre in luglio, più precisamente il 20 luglio 1969, Neil Armstrong posava il primo piede umano sul suolo lunare. Un’impresa da libri di storia, come del resto sono state la prima circumnavigazione del globo di Magellano (1519-’22), la scoperta della forza di gravità (Isaac Newton, 1687) e la nascita del primo aeroplano (Orville e Wilbur Wright, 1903).
Che a essere sfidati siano la natura, le leggi fisiche o gli oceani poco cambia. Alla radice di ogni impresa c’è sempre una pulsione insita in ognuno di noi. «Esiste nell’uomo una necessità, quasi un obbligo, a superare il limite connaturato all’esistenza – spiega Stefano De Matteis, docente di Antropologia culturale alla Pontificia Università Gregoriana e all’Università Roma 3 –. Non potendo restare una vita intera nella pancia della madre, quando nasciamo veniamo immediatamente immersi in un sistema culturale stratificato che man mano ci forma». Dall’infanzia passiamo, così, all’adolescenza tramite i riti di iniziazione. E poi all’età adulta e alla vecchiaia, fino al limite ultimo della vita: la morte. «Ogni giorno ci mettiamo alla prova e ogni giorno sfidiamo un limite, perché il limite è in noi stessi» continua De Matteis, che nel 2021, nell’intento di spiegare il nostro rapporto col limite, ha scritto Il dilemma dell’aragosta. La forza della vulnerabilità (Meltemi). Che cosa c’entra l’aragosta con l’essere umano? «Ho scelto questa metafora perché l’aragosta è un animale che nasce nudo e solo – chiosa l’antropologo –. Ben presto la natura lo dota di una corazza che, tuttavia, non si espande. E così, mentre il corpo cresce, questa “armatura” diventa una sorta di gabbia. Il crostaceo soffre del suo stesso limite, finché – arrivato a saturazione – trova un luogo isolato e protetto dove spogliarsi di quel “vestito stretto” in attesa che ne cresca uno nuovo della giusta taglia».
Potremmo obiettare che l’uomo non è un’aragosta, pertanto liberarsi dagli affanni e dalle costrizioni risulterebbe molto più complicato. Una ricetta, in ogni caso, esiste. «Tutto sta nell’acquisire la capacità di ragionare su noi stessi, di interrogarci e di imparare da chi non è come noi – aggiunge De Matteis –. Solo avviando una pratica di riconoscimento reciproco è possibile instaurare un rapporto di scambio e vicinanza con chi ci sta intorno, approdando alla consapevolezza che siamo tutti parte di un sistema, tutti uguali e diversi (culturalmente) e che non siamo padroni dell’universo, tanto meno della natura».
Proprio dalla natura, dunque, vale la pena ripartire. Una natura tradita e ferita dai suoi stessi abitanti. Mettiamoci per un attimo nei panni del vecchio marinaio descritto da Samuel Taylor Coleridge nel 1798 (La ballata del vecchio marinaio), il quale, spintosi a bordo di una nave oltre l’Equatore, uccide un albatros – uccello «sacro» ai naviganti – rompendo così l’equilibrio tra uomo e natura, di fatto condannando a morte l’equipaggio. A oltre due secoli di distanza, il contenuto di questa poesia risulta quanto mai attuale. «Negli anni l’Occidente ha attivato una pratica di sfruttamento e distruzione della natura – conferma De Matteis –. È tempo che l’uomo inizi un processo di “scambio e restituzione” nei suoi riguardi. Nella consapevolezza che la natura non è un bene illimitato, e non ci appartiene».
Facile a dirsi, molto meno a farsi. Perché voler dominare un’entità più grande di noi equivale, per dirla alla greca, a peccare di hybris. «La parola hybris significa violenza, oltraggio, arroganza – scrivono Alberto Camerotto e Sandro Carniel in I limiti dell’uomo tra acque, cieli e terre (Mimesis) –: indica la violazione di un limite, di un kosmos e di un’armonia. Il nostro è un tempo della vita quotidiana in cui non vediamo più il mondo in cui viviamo, sembra quasi che ci siamo solo noi. Un vortice ci travolge tra i problemi e le frenesie dell’economia, gli entusiasmi tecnologici, la rapidità delle trasformazioni e l’omologazione dello spazio e dei luoghi. Se nell’affanno o nel disorientamento non vediamo più le stelle, la terra e il mare, questo ci fa dimenticare anche il nostro limite e la nostra natura. Hybris, allora, diviene una parola adatta per il nostro presente. Oggi soprattutto dobbiamo imparare a vedere i problemi e i limiti».
Dalla corazza-impedimento dell’aragosta il limite si fa, dunque, opportunità in vista del cambiamento. «Il limite è una grandissima risorsa, perché ci fa capire dove siamo e ci permette di guardare oltre, di immaginare altri mondi possibili» conferma Stefano De Matteis. Tutto sta a saperlo mettere a frutto. «Il covid, ad esempio, è un limite che non siamo stati capaci di sfruttare. Da quel 9 marzo 2020 in cui il mondo si è fermato avremmo potuto cambiare ogni cosa. Ma, finita l’emergenza, tutto è tornato come prima!». Non basta, però, una sconfitta a far perdere una guerra. E il nostro rapporto con il limite ha ancora tanta strada da fare. Di questo avviso è anche Luigi Lugiato, autore (con Vilma Tagliabue) di L’uomo e il limite. La sfida che dà un senso alla vita, Franco Angeli (2017). «Il “sentire il limite” svolge il ruolo di motore per le iniziative umane – scrive il fisico, professore emerito all’Università dell’Insubria –. Da una parte, guida le realizzazioni che nascono dalla creatività e dalla progettualità. Quindi ne è coinvolta non solo la scienza, ma anche l’arte, la letteratura, l’imprenditorialità e così via. D’altra parte, lo stesso concetto governa le relazioni umane positive come quelle sociali, l’amicizia e la collaborazione, l’amore». Un ruolo, insomma, a 360 gradi. Della serie: quando il limite non ha limite!
Tra filosofia e cristianesimo
«There’s something wrong with the world today / I don’t know what it is / Something’s wrong with our eyes / We’re seeing things in a different way / And God knows it ain’t his / It sure ain’t no surprise, yeah / Living on the edge» (C’è qualcosa che non va col mondo oggi / non so cosa sia / qualcosa che non va nei tuoi occhi / vediamo le cose in modo differente / e Dio sa che non è il suo / di sicuro non è una sorpresa / stiamo vivendo al limite). Chissà se, cantando Living on the edge (1993), Steven Tyler, il leader della rock band Aerosmith, era consapevole di toccare un tema su cui filosofi e teologi si arrovellano da secoli… «Per la filosofia greca, che è tutta costruita sul senso del limite, è naturale e comprensibile il bisogno umano di fare esperienza e “andare oltre” – spiega don Roberto Vinco, docente di Filosofia presso lo Studio Teologico San Zeno e l’Istituto Superiore di Scienze Religiose San Pietro Martire di Verona –. Ma nel momento in cui l’uomo va contro natura e non rispetta la propria essenza (limitata, fragile e mortale) diventa immorale».
Come valeva nell’antichità, questo vale a maggior ragione ai giorni nostri, annebbiati da una crisi socio-economica, politica, ma ancor prima antropologica. In tale contesto, «il limite contribuisce a metterci in discussione e a farci ripartire. Contro lo svuotamento delle parrocchie aiuta a ripensare il nostro vivere la pastorale, le Messe, i sacramenti... attraverso un linguaggio più vicino alla vita quotidiana» continua don Roberto. Tutto il ’900 è stato attraversato da una progressiva riscoperta del limite umano. «Per lungo tempo abbiamo dimenticato l’altro, eliminato Dio e messo l’Io al centro di tutto. L’egocentrismo ha invaso la vita e la cultura. In tal senso le guerre di ieri e di oggi rappresentano l’ultimo frutto di questa nostra incapacità di accettarci nel limite». Ma il futuro è ancora aperto. E, al di là degli stereotipi, «dobbiamo imparare dai nostri errori e dai nostri limiti». Qualcuno prima di noi ci è riuscito molto bene…
«Tre sono le figure di uomo ideale che hanno caratterizzato la nostra formazione culturale – continua don Roberto –. A cominciare da Ulisse: uomo dell’avventura che pensa al futuro, lascia, fallisce, rischia, ma ha un programma e, infine, torna a casa. Oltre l’Odissea di Omero, l’ideale proposto dalla filosofia ebraica (da Hannah Arendt in poi) ha le sembianze di Abramo: l’opposto di Ulisse, colui che accoglie una proposta e parte senza alcun progetto, perché “si fida”». La terza figura, infine, arriva dall’Eneide di Virgilio. E a farcela riscoprire, a detta di don Roberto, è stata la pandemia. «Enea è lo sconfitto che fugge da Troia in cerca di una nuova terra. Carica l’altro (il padre) sulle spalle e trova il coraggio di ricominciare. Un modello di uomo che ben si sposa con il programma di vita ideale del cristiano» e che ritroviamo anche nelle lettere dal carcere (Resistenza e resa, 1943-’44) di Dietrich Bonhoeffer: un vero inno alla fede in Dio, a dispetto della sete di potere e della banalità. «Bonhoeffer apre l’orizzonte all’infinito, all’assoluto» commenta a riguardo don Roberto. E dunque al futuro. Ma perché il domani possa realizzarsi, serve una fondamentale presa di coscienza da parte dell’uomo. «Solo accettando il nostro limite possiamo costruire il futuro», perché perseguire la perfezione, ovvero l’opposto del limite, che esiste solo in Dio, significa distruggere la propria umanità. «La perfezione cristiana consiste nell’accettarsi come limitato» aggiunge il docente di filosofia. Il che non vuol dire sedersi e stare a guardare. Anzi, accettarsi è anche saper lottare, rimboccarsi le maniche, ricominciare e rinascere. Come fa Enea.
Ma c’è un ultimo «eroe» che forse più di tutti andrebbe citato: «L’immagine evangelica più bella della filosofia del limite si trova nella parabola del padre misericordioso – conclude don Roberto –. Il figliol prodigo, che rappresenta l’uomo dei giorni nostri, prende i soldi e parte per realizzare la propria vita. Poi, però, scopre di essere limitato e torna a casa. Ad attenderlo non trova un giudice che lo condanna, ma un padre che lo festeggia, perché egli ha finalmente preso coscienza di ciò che è, ha accettato la fragilità, la sofferenza e, da quel momento in poi, potrà gustare la vita».
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