Il mistero del calcio
Penso spesso al calcio. Mi incanto quando vedo ragazzi, uomini, donne, bambini, vecchi correre dietro a un pallone. In questi giorni si sono chiusi, si stanno chiudendo campionati e coppe. Si sono giocate e si giocheranno finali di tornei lunghissimi. Che, a volte, hanno trasformato in primavera perfino gli inverni del nostro scontento.
Sfoglio le prime pagine di un libro, Calciologia, viaggio affascinante di un antropologo piemontese, Bruno Barba, fra le costellazioni del calcio. Mi imbatto in Camus, Soriano, Pasolini, Galeano, Marias, Arpino. Io vi aggiungo, a istinto, Umberto Saba ed Edmondo Berselli. Mi prendo la citazione da Camus (Camus!): «La maggior parte di quello che ho appreso dalla vita, l’ho imparato giocando a calcio».
Punto il dito, con una leggera euforia, sulle parole di Borges (Borges!): «Laddove un bambino fa rotolare un pallone, là ha inizio la storia del calcio». Sì, i bambini corrono verso la palla, amano gli eroi «che così bene sanno trattare quel mistero profondo che rimbalza». Che meraviglia.
Da anni, quando vinco la mia pigrizia, fotografo le porte dei campi di calcio (senza portiere, senza nessuno). Le tengo lì, in attesa che si popolino di giocatori, immagino. E ora corro a cercare una foto che sapevo di avere: Villa Alancar è un villaggio del Rio delle Amazzoni, giorni e giorni di navigazione da Manaus. Rimasi per un tempo infinito a guardare le donne giocare a calcio con i bambini in braccio. Uno spettacolo che valeva la finale di Champions a Cardiff. Bruno Barba spiega che il calcio è affine alla poesia. E il talento di accarezzare una palla «può nascere nella roccia, sulla sabbia e persino in una discarica. In qualunque epoca. E non si riesce a spiegare».