Il teologo clown
L’aspetto non è quello classico del serioso professore di filosofia, né, tanto meno, quello del docente di Teologia dogmatica. C’è un guizzo particolare nei suoi occhi, una sorta di allegria fanciullesca che la vita, per fortuna, non è riuscita a spegnere. Marco Tibaldi, 63 anni, bolognese doc, una laurea in filosofia e una in teologia, autore di innumerevoli contributi e libri dai titoli anche molto impegnativi (due su tutti: Kerygma e atto di fede nella teologia di Hans Urs von Balthasar e Teosemiotica. Trattato di epistemologia teologica) un segreto per mantenere viva questa fiammella di luce ce l’ha: la passione per il teatro, che coltiva da sempre e che ha saputo collegare ai suoi studi, calcando i palcoscenici, scolastici e non, di mezza Italia, per mettere in scena i personaggi e le storie della Bibbia, anche con l’aiuto di maschere e burattini.
Msa. Professor Tibaldi, come fa a coniugare questi due lati in apparenza così diversi della sua vita?
Tibaldi. Beh, tutto questo dipende dalla natura dei miei interessi: lo studio della teologia e la passione per il teatro. Partendo dal primo, bisogna ricordare che il Dio che si rivela nella Bibbia è un Dio che ama sorridere, è un Dio che ama conversare con gli umani, che ama stare con loro e, ancor più precisamente, è un Dio che quando parla fa ridere gli uomini. Nella storia con cui, possiamo dire, comincia la Scrittura, la storia di Abramo, incontriamo un uomo e una donna anziani che si ritrovano a fare i conti con delle promesse di Dio che sono incredibili, che fanno davvero ridere: un novantenne e una settancinquenne sterile da sempre che daranno origine al popolo di Dio… Il ridere è parte costitutiva della Bibbia, anche se poi è necessario il momento dell’approfondimento, dello studio, per capire sempre meglio chi è questo fantastico Dio che in essa si è rivelato.
Quindi lei ci sta dicendo che la Bibbia, che molti reputano barbosa, è in realtà un libro «teatrale»?
La Bibbia è un testo prevalentemente narrativo e i testi narrativi coinvolgono sempre coloro che li ascoltano nella vicenda narrata, perché noi ci immedesimiamo nei personaggi delle storie. Basti pensare a quando guardiamo un film o leggiamo un romanzo: la dinamica è la stessa. Dinanzi a un testo narrativo noi possiamo deprimerci, rallegrarci, appassionarci, spaventarci, eccitarci, perché riviviamo le scelte dei personaggi, vorremmo fare o non fare come loro. E così accade nel teatro, del quale la drammatizzazione del testo, la narrazione, sono parti costitutive. Quindi Bibbia e teatro stanno benissimo insieme, perché utilizzano esattamente lo stesso modello comunicativo, quello della narrazione, da sempre caro agli esseri umani.
Ma perché è così importante per noi umani il raccontare e il sentirsi raccontare delle storie?
La narrazione è un bisogno primario dell’uomo, al pari di quello del cibo, del riposo, dell’accudimento. Basti pensare ai bambini che, appena sono in grado di farlo, chiedono ai genitori: «Mi racconti una storia?». E questo bisogno, col passare degli anni, non viene mai meno, mutano semplicemente le storie, ma il bisogno resta fino a che rimaniamo su questa Terra. Perché? Perché le storie ci aiutano a riflettere sulla vita senza ansia, senza sentirci «in presa diretta». Possiamo rileggere i grandi temi come l’amore, la morte, la guerra, la salute e i tanti sentimenti dell’animo umano che sono ciò che rende la vita un’avventura fantastica, capace di portarci tre metri sopra il cielo, quando funziona bene, ma che può anche farci sprofondare nella terra, quando le cose vanno male. I racconti sono allora una sorta di «libretto di istruzioni» della vita alla portata di tutti, riescono a spiegarci, con un linguaggio che tutti possiamo capire e gustare, come funziona il mondo, un mondo in cui c’è la nonna che vuole tanto bene alla nipotina ma c’è anche il lupo cattivo, o c’è un modo per imparare a inquadrare il gioco in un orizzonte più ampio (basti pensare ai Tre porcellini). Per questo noi non potremmo vivere senza racconti, anche se, come dicevo prima, le forme del racconto possono mutare, per cui c’è il libro, c’è il teatro, c’è la televisione, oggi poi c’è tutto il mondo dei social media… ma tutte queste modalità lavorano sulla narrazione.
Facciamo un passo indietro: come nasce la sua passione per il teatro? Ha anche fondato una compagnia teatrale, Gli amici di Guido: ce ne parla?
Io credo che ognuno di noi abbia un’arte di riferimento, un lato artistico che privilegia: che sia il ballo, il canto, la pittura, la composizione di poesie oppure, come nel mio caso, il teatro. Per me è così da sempre, da quando ho memoria. Sin dall’asilo a me piaceva raccontare storie agli amici, forse c’è anche un po’ di narcisismo in questa mia passione… Non a caso mi sono scelto poi un lavoro come quello dell’insegnante che contempla in sé anche una sorta di dimensione teatrale nei confronti dei propri studenti. Poi, questa passione innata a un certo punto ha preso una piega un po’ più organizzata e così sono ormai 30 anni da che ho cominciato a fare dei piccoli spettacoli. All’inizio capitava in occasione dei matrimoni degli amici con cui siamo cresciuti insieme in un grande gruppo legato alla spiritualità ignaziana: fare uno spettacolo per il loro matrimonio era il mio regalo. Poi, visto che questi primi spettacoli piacevano così tanto, ho pensato di dare loro una forma più «definitiva» anche fondando la compagnia Gli amici di Guido. È una piccola compagnia, siamo in pochi, ma abbiamo tante maschere che mi vengono fornite da alcuni amici molto bravi e generosi come Alberto e Stefania Battistini e Roberta Pizzi, veri artisti. Ma ciò che con il tempo ho avvertito sempre più come un’urgenza, è stata la necessità di riscoprire, attraverso il teatro, il cuore pulsante di tutto il cristianesimo, che non è una proposta etica, non è uno stile di vita, ma è un incontro con una persona che ha vissuto ed è viva per sempre, Gesù di Nazareth, morto e risorto. Talvolta questa rischia di restare solo una bella frase che magari comprendiamo a livello mentale, con la testa, ma non riusciamo a capire con il cuore, con gli affetti. E io invece credo che oggi questa comprensione sia necessaria, perché sia sul Nuovo che sull’Antico Testamento ci sono molti fraintendimenti: dobbiamo riscoprire come questi testi vanno letti e come si possono applicare alla nostra vita o, meglio, come la nostra vita sia leggibile alla luce delle storie della Scrittura.
Ma com’è possibile fare questo con i giovani?
Come si fa con tutti. Innanzitutto mettendo a tema le loro difficoltà, ascoltandoli, non avendo subito l’ansia di voler colmare i loro vuoti. Occorre, invece, che questi vuoti vengano «messi a tema», un po’ come fa Gesù con i due discepoli di Emmaus, che assomigliano tanto a molti giovani di oggi (ma anche meno giovani), che hanno deciso di abbandonare Gesù, perché delusi dalla sua vicenda. Gesù, lo vediamo in tutta la prima parte del racconto, si fa vicino a loro, li ascolta, fa domande, fa venire fuori tutti quei sentimenti negativi di delusione, di rabbia, di frustrazione che hanno provato proprio nei suoi confronti e solo dopo si rivela. Allora, certamente, questa è una grande indicazione che Lui ci dà: prima l’ascolto, le domande, l’accoglienza e poi, solo poi, un annuncio della Parola che spieghi anche come sono fatte le Scritture, cominciando da Mosè e dai profeti, come dice appunto Gesù nel brano dei due di Emmaus.
Ma i giovani di oggi, quelli sui quali lei ha un osservatorio privilegiato, che rapporto hanno con la fede?
Insegno filosofia in un liceo a ragazzi tra i 15-16 e i 18-19 anni. Quello che vedo è la loro grande fatica nel trovare un senso alle tante cose che fanno. Perché oggi i ragazzi fanno tantissime cose, ma il clima culturale non riesce più a presentare un senso globale a tutte queste cose. Allora, un primo tema è quello di far vedere loro – in questo, una certa filosofia aiuta molto – che c’è un modo per fare unità tra tutte queste cose e che questa unità poi la si trova andando a fondo della propria umanità. Perché il cristianesimo è la religione di un Dio che si è fatto carne, ed è quindi dentro la carne di ciascuno che si può trovare la risposta e si può trovare il ponte per fare questo incontro con Lui. Io vedo che i giovani a questo tipo di proposta sono molto attenti, anche se poi, certo, ognuno fa le proprie scelte, perché c’è sempre di mezzo la libertà e anche il rispetto dei tempi di maturazione di ciascuno. Però il cristianesimo, presentato in modo corretto – un modo che non ho inventato io, anche a me è stato proposto così –, può convincere al punto tale da farne una ragione di vita.
Lei, lo abbiamo visto, utilizza il linguaggio teatrale, ma quali altri linguaggi potrebbero a suo avviso intercettare i bisogni profondi degli uomini e delle donne di oggi?
I linguaggi, per certi versi, la Chiesa li ha sempre utilizzati tutti, e sono i linguaggi che fanno riferimento al corpo, ai cinque sensi. Pensiamo a tutto il tema dell’arte sacra, ma anche dell’arte non sacra che è comunque un’arte religiosa perché parla dell’uomo, dei suoi drammi, delle sue ricerche. Dobbiamo riscoprire il fatto che noi funzioniamo più con i sentimenti che con i pensieri – poi, certo, i pensieri ci vogliono –, anche se siamo figli di una cultura, come quella greca, e siamo immersi in un mondo che si basa molto sulla scienza e sulla tecnologia, che puntano molto sul cognitivo, sullo spiegare… Tutte attività assolutamente necessarie, sia chiaro, ma le scelte più importanti della nostra vita le compiamo nel mondo degli affetti: basti pensare a quando ci mettiamo assieme a una persona e decidiamo di fare una famiglia, un figlio, ma anche la scelta di un lavoro che appassiona, non semplicemente un lavoro che dà dei soldi… Tutto questo fa parte della nostra corporeità, perché gli affetti si manifestano e si vivono all’interno del corpo. Quindi vanno utilizzati tutti i linguaggi che aiutano questa alfabetizzazione emotiva di cui spesso si lamenta l’assenza anche legata ai tanti casi tragici di cronaca che sentiamo quasi quotidianamente.
C’è qualche ricordo significativo legato alla sua attività teatrale?
Sia nelle austere aule della teologia che in quelle altrettanto austere del liceo, ho sempre cercato di portare avanti il mio insegnamento in un modo un po’ «teatrale», coinvolgente. E talvolta ho incontrato dei colleghi, magari un po’ più burberi, più schematici di me, che mi hanno dato del clown, pensando così, forse, di ferirmi o semplicemente per manifestare il loro disappunto. Invece per me questo è sempre stato un grande complimento: quando uno mi dà del clown coglie nel segno, perché il clown è quella persona che va fuori dagli schemi per parlare delle cose che contano, che con il sorriso riesce a far riflettere anche sui grandi drammi della vita e così pure sulla proposta che il nostro Dio fa agli uomini. In fondo, anche Gesù è stato rappresentato come un clown da diversi artisti: non è un caso…
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!