Inseguendo l’infinito
Per i mosaicisti medievali era semplicemente un fondo dorato da cui emergevano le figure della cristianità. Caspar David Friedrich lo dipinse, in pieno stile romantico, come un mare di nebbia o un cielo al tramonto. Mentre Giacomo Leopardi, agli inizi dell’Ottocento, gli dedicò persino una lirica, immaginando di rimirare, dall’alto del monte Tabor sopra Recanati, «interminati spazi… sovrumani silenzi… e profondissima quiete». L’infinito è da sempre materia di indagine di pittori, poeti e filosofi. Meglio ancora, dell’essere umano in quanto tale. Perché la ricerca dell’Assoluto è insita nella natura umana. «L’uomo può comprendere adeguatamente se stesso solamente a partire dal fatto che ognuno di noi è una grande domanda di infinito». Ne è convinto don Alessio Geretti, sacerdote friulano che da anni organizza originali mostre d’arte nel borgo montano di Illegio, a pochi chilometri da Tolmezzo (UD). Ha cambiato location, ma non certo stile il curatore che, per la sua ultima fatica «La forma dell’infinito» ha scelto la neo ristrutturata Casa Cavazzini, sede del Museo di Arte Moderna e Contemporanea a Udine. In mostra una cinquantina di opere legate, in un modo o nell’altro, al tema della trascendenza e della spiritualità.
Attraverso otto sezioni, l’esposizione accompagna il pubblico in un viaggio nella mente dei maestri del passato, ma anche dentro se stesso. A tradurre in parole le «visioni su tela» di grandi artisti come Claude Monet, Pablo Picasso, Paul Cézanne, Paul Gauguin, Maurice Denis e Vasilij Kandinskij, trenta giovani guide incaricate di spiegare le opere non solo dal punto di vista artistico, bensì anche storico, filosofico e spirituale. Grazie a capolavori dell’arte moderna e contemporanea prestati da collezioni private e grandi musei (dal Musée D’Orsay di Parigi al Peggy Guggenheim di New York e Venezia, fino alla Galleria Tret’jakov di Mosca), il messaggio giunge al visitatore forte e chiaro. «L’arte esiste non per produrre decori frivoli né per riprodurre le apparenze di ciò che abbiamo sotto gli occhi – precisa ancora don Alessio Geretti –, ma per oltrepassarle alla ricerca del mistero, del senso ultimo della vita, e per dare forma a quella tensione verso l’infinito, incantevole e struggente, che ci rende unici nell’universo».
Santi ed eroi
«Una volta, guardando fuori dalla terrazza della casa ad Abramtsevo (tenuta agricola a 57 chilometri da Mosca, dove a partire dal 1870 un gruppo di pittori e scrittori russi fondò, sotto la guida dell'imprenditore Savva Mamontov, un circolo letterario-artistico, ndr), mi colpì improvvisamente una visione bellissima dell’autunno russo. Dolci colline a sinistra, con un fiume tortuoso (Vorya di Aksakov) sotto di loro. In lontananza la vastità rosa dell’autunno, alcune chiazze di verde malachite; a destra un bosco dorato». Raccontava così Mikhail Nesterov il momento in cui trovò l’ispirazione per dipingere La visione del giovane Bartolomeo. Un quadro che il pittore amò particolarmente, tanto da produrne tre versioni (l’ultima nel 1923). La minuzia di dettagli naturalistici e la straordinaria bellezza del paesaggio «addormentato», tuttavia, fanno da cornice a un contenuto ancora più prezioso. Dietro i toni pastellati, l’atmosfera rarefatta e i tratti raffinati, si nasconde la storia di un grande testimone della spiritualità russa.
Stiamo parlando di san Sergio di Radonež, che a 7 anni, quando ancora si faceva chiamare Bartolomeo, incontrò un misterioso monaco intento a pregare sotto una quercia. Affascinato dallo sconosciuto (secondo la leggenda, un angelo travestito), il giovane gli confidò un forte desiderio di preghiera, ostacolato però da problemi di apprendimento. Il monaco, dunque, offrì al giovane del pane liturgico, preannunciandogli un futuro di sapienza. Molti anni dopo quella visione mistica, Bartolomeo intraprese la vita eremitica e fondò il monastero della Santa Trinità nell’attuale città di Sergiev Posad, divenendo così – parola di Giovanni Paolo II (Angelus, 4 ottobre 1992) – quel «grande maestro della vita monastica russa e protettore della Russia».
L’olio su tela di Nesterov è solo una delle tante opere che – nell’ambito della mostra «La forma dell’infinito» – aprono parentesi di spiritualità e riflessione nell’animo del visitatore. Pensiamo all’Odisseo di Alexander Rothaug (ante 1924), ripiegato su se stesso su uno scoglio dell’isola di Ogigia. Siamo lontani anni luce dall’eroe astuto che portò i greci a vincere la guerra di Troia. Qui Ulisse ha ceduto il testimone a Nessuno, uomo derubato della propria identità, vittima della nostalgia, alla mercé del fato (e della ninfa Calipso). Ben altra contemplazione sembra impegnare il protagonista della tela Il comando del maestro (precetto del saggio), realizzata da Nikolaj Roerich nel 1947 (la prima versione risale al 1931). L’uomo in questione, il Buddha che medita seduto su una roccia, a differenza di Odisseo si apre all’ascolto di ciò che lo circonda. Davanti a lui un uccello bianco volteggia incerto come un discepolo al cospetto del proprio maestro. Tutt’intorno la natura dà spettacolo di sé aprendosi tra picchi e gole. Un tuffo al cuore che Roerich ha ritratto direttamente dalla finestra di casa. Il pittore, infatti, dopo un lungo viaggio attraverso l’Asia centrale, si era trasferito con la famiglia nella valle himalayana di Kullu, dove scorre il fiume Bias. A proposito di location che fanno vibrare l’anima…
Oltre i paesaggi meditativi di Roerich saturi di blu, viola e rosa, la ricerca dell’Assoluto prosegue attraverso piccole pennellate di colore e luce Sur les planches di Trouville. È l’estate del 1870 e Claude Monet, novello sposo di Camille Doncieux, trascorre le vacanze nella località balneare francese ritraendo hotel, spiagge e – in questo caso – un pontile di legno che costeggia gli edifici turistici. L’infinito non si nutre solo di silenzio e solitudine. Ma abita anche tra le persone, evolve nei gesti e nei rapporti. Infinito è quel sentimento di amicizia che fa dipingere a Paul Gauguin Natura morta davanti a L’Espérance a undici anni dalla morte di Vincent Van Gogh, con cui aveva convissuto ad Arles. Realizzato a Tahiti nel 1901, il quadro – uno degli ultimi del maestro – riprende il tema dei girasoli, tanto caro al pittore olandese che li dipinse in numerose varianti. Sullo sfondo, Gauguin tratteggia un'opera di Pierre Puvis de Chavannes (1871-1872) custodita al Museo D’Orsay e raffigurante la Speranza nei panni di una giovane nuda, adagiata tra le rocce, sopra un drappo bianco. Come in un rebus, gli elementi del quadro si fondono per dar vita a un nuovo significato. Quasi una risposta alla lettera che poco prima di morire Van Gogh aveva indirizzato a Gauguin. «Spero che saremo amici per sempre» scrisse Vincent. Considerata questa Natura Morta, c’è da credere che Paul rispose di sì.
Quando si parla di spiritualità in arte, difficile prescindere dal grande Vasilij Kandinskij, autore per l’appunto di Lo spirituale nell’arte (1912), da molti considerato una sorta di manifesto dell’arte astratta. Non c’è da stupirsi, dunque, che a Casa Cavazzini in mostra ci siano ben tre opere del maestro russo: Mosca I, Piazza Rossa (1916), Composizione IV (1911) e Impressione V (1911). Se nel primo caso l’artista imprime su tela e cartoncino il trasporto per la moglie Nina Andrevskij e l’amore per la sua città natale («Mosca è stata il mio diapason di pittore») lavorando linee, forme e colori secondo un movimento centripeto, nelle due litografie il processo di sintesi raggiunge le vette dell’astrazione. Kandinskij torna ai fondamenti della «grammatica» dell’arte per guidarci dal visibile all’invisibile. Punto, linea e superficie diventano così ingredienti di una composizione che attinge all’interiorità dell’artista. «L’elemento interno dell’opera è il suo contenuto – scriverà Kandinskij –. È dunque indispensabile la vibrazione dell’anima perché l’opera d’arte possa venire alla luce». E perché possa, suscitando un’emozione spirituale, accompagnare l’anima nel suo viaggio verso l’infinito.
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