Safet Zec: «La mia pittura in nome della verità»

Ha ritratto le vittime della guerra in Bosnia, ma in fondo anche tutti gli altri profughi del mondo che ogni giorno fuggono dai conflitti. Perché per Safet Zec l’arte deve portare un messaggio utile.
04 Novembre 2020 | di

Forse mai come in questo tempo sospeso di paura e solitudine abbiamo desiderato abbracciarci e stringerci forte. Non è un mistero che si apprezzi davvero il valore delle cose solo quando non le abbiamo più. Già molto prima del covid, però, l’artista bosniaco Safet Zec aveva immortalato sulla tela uomini e donne seminudi che si sostengono a vicenda. Un inno alla fratellanza universale, ma anche il racconto di un dolore profondo generato non da un virus, bensì dalla guerra da cui lo stesso Zec fuggì quasi trent’anni fa.

Nato a Rogatica, in Bosnia Erzegovina, nel 1943, ultimo di otto figli di un calzolaio musulmano, Safet Zec in realtà è stato profugo per due volte nella sua vita. La prima: da bambino quando, in piena Seconda guerra mondiale, si trasferì con la famiglia a Sarajevo. La seconda, nel '92, quando, a causa del conflitto in Bosnia, fu costretto a fuggire con moglie e figli a Vienna, salvo poi riparare a Udine e, infine, a Venezia. Da qui il costante richiamo alle migrazioni nelle sue opere e la straordinaria capacità di tradurre sulla tela il dramma e lo sradicamento che solo un profugo conosce.

Talento versatile (è pittore, ma anche incisore e disegnatore) apprezzato anche da papa Francesco, che nel 2014 ha benedetto la sua Pala della deposizione di Cristo nella Chiesa del Gesù a Roma, Safet Zec ha esposto a Firenze, Udine, Treviso, Milano. Non ultima Venezia, dove, lo scorso anno, la Chiesa della Pietà ha ospitato il suo ciclo Exodus, dedicato alle vittime della guerra in Bosnia e, più in generale, a tutti i migranti.

Le stesse grandiose opere (larghe tra i 3 e i 10 metri e alte 2) – divise in tre sezioni: Lacrime, Abbracci, Mani sul cuore – hanno tappezzato quest’anno, da luglio a ottobre, le pareti del Memoriale di Potocari, in occasione dell’anniversario della strage di Srebrenica. A vent’anni dall’eccidio di oltre 8.300 musulmani bosniaci per mano delle truppe serbo-bosniache, ciò che conta davvero, per Safet Zec, è testimoniare la verità. Per non ripetere gli errori del passato e per riuscire forse un giorno a sentirci tutti parte di uno stesso sistema.

Msa. In un’intervista alla Rai Giandomenico Romanelli – già direttore dei Musei civici veneziani – l’ha definita «pittore umanista» e «testimone visionario», associandola a grandi del ?500 veneziano come Tintoretto. Si ritrova in questa definizione? 
Zec. Si, i miei riferimenti artistici sono da sempre i grandi maestri della pittura, dal '500 fino al '900. Parlo di una pittura intesa come linguaggio. Una pittura che proprio a Venezia – patria (per nascita o per adozione) del Veronese, di Tintoretto, di Tiziano, del Bellini – ha raggiunto le vette dell’arte a livello mondiale. 

Lei si è formato alla Scuola di arti applicate a Sarajevo e all’Accademia di Belle Arti di Belgrado. Quanto conta la preparazione accademica?
È inevitabile, se si desidera padroneggiare un certo linguaggio pittorico. Così come un violoncellista, un pittore che vuole diventare grande ha bisogno del supporto di insegnanti che gli spieghino «come fare». Come fare un occhio, un orecchio, un ritratto… C’è sempre un modo di fare le cose. Per riuscire a trasmettere sulla tela il mio messaggio ho dovuto attendere di farlo con grande mae­stria. Perché solo così avrei reso il giusto pathos

Dalle sue opere, in effetti, trasuda pathos, ma anche tanta sofferenza…
Il linguaggio dell’arte ha una grande capacità: sa esprimere la tragedia e il dolore in un modo bellissimo. Ad esempio, prendiamo una testa mozzata dipinta dal Caravaggio. Di per sé l’immagine dovrebbe generare orrore, eppure, grazie alla bellezza della pittura, ne sopportiamo volentieri la vista. E questo vale anche in letteratura e in musica. Penso a Guerra e Pace di Tolstoj, che racconta meravigliosamente la brutalità della guerra. O al Requiem di Mozart: non solo una musica da funerale, ma una grande composizione che commuove. Questa è vera arte. 

Cosa rappresentano per lei gli abbracci e come vanno letti in questo particolare periodo in cui – a causa del coronavirus – sono off limits?
Gli abbracci appartengono ai miei pensieri dai tempi della scuola media, a Sarajevo. Le mani soprattutto. Quando poi, nel 1992, scappando dalla guerra, ho realizzato che anch’io avrei dovuto dare un contributo – come cittadino e come uomo – alla mia terra, le mani sono arrivate come una soluzione bellissima, in grado di esprimere bisogno e sofferenza. Non c’è nulla che sappia raccontare il dolore dentro una persona meglio di due mani posate su un volto.

I protagonisti della sua serie Abbracci – Admira e Bosko – sono stati paragonati a Romeo e Giulietta. Che cosa rappresentano per lei questi innamorati uccisi dai cecchini sul ponte Vrbanja nel '93, durante l’assedio di Sarajevo? 
Per quanto accomunati a Romeo e Giulietta dalla tragedia, oltre che dalla giovane età, Admira e Bosko appartengono a un altro tempo, sono morti per un’altra causa. Il loro abbraccio racconta l’ingiustizia della guerra e le separazioni etnico-religiose che essa ha portato in Bosnia. Ma che cosa significa davvero «diversità»? Che c’entra la religione? Con quale diritto migliaia di persone sono state separate e uccise? 

Il fenomeno migratorio è oggi una realtà globale che ci riguarda tutti. Eppure si continuano a erigere muri…  
Negli ultimi anni in Italia ho seguito dai giornali le scarse notizie sui migranti. Essi scappano dalla guerra proprio come ho fatto io. Partono in molti e pochissimi attraversano il Mediterraneo incolumi. È un exodus che si ripete di continuo (da qui il titolo del suo ciclo pittorico, ndr). Basterebbe fermare le guerre e la gente non avrebbe più bisogno di scappare. Ma qui entrano in campo la maledizione dell’uomo occidentale, schiavo del denaro, e il business delle armi. Ancora oggi nei campi bosniaci ci sono mine inesplose! Mine prodotte in Italia e tuttora esportate chissà dove.

Di fronte a tanto dolore, qual è il dovere dell’artista contemporaneo?
L’artista, così come chiunque altro, ha il dovere di non produrre stupidaggini. Al mondo servono opere pensate, utili. Che senso ha progettare un ponte che non si può attraversare? Perché scrivere un romanzo che non tocca i problemi contemporanei? Ognuno, nel proprio campo, deve lavorare alle grandi sfide dell’umanità, in primis questa pandemia che non distingue tra ricchi e poveri. 

Dopo l’esposizione di Srebrenica, il ciclo Exodus e gli Abbracci viaggeranno ancora?
Credo di sì. Desidero che questo mio ciclo sia visto in molti luoghi. Perché ho capito che le persone sono sempre meno informate. E invece io voglio che sappiano che cosa è successo davvero in Bosnia. Oggi, domani e dopodomani, artisti e non, dobbiamo continuare a parlarne, per arrivare alla verità. Al di là della giustizia internazionale e dei processi che sono stati fatti, c’è una parte del mondo che ancora non riconosce i crimini avvenuti, o forse non vuole riconoscerli.

Nel frattempo sta lavorando a nuove tele? 
In questo momento sto riflettendo. Ho una certa età e devo pensare a che fine faranno le mie opere. Ho creato già tante cose… 

Mentre parliamo, il numero dei contagi da covid continua ad aumentare in tutto il mondo. Come vive questa nuova minaccia?
La pandemia è piombata nelle nostre vite come un’invasione non prevista, qualcosa di nuovo che deve farci riflettere. Tutti ora dobbiamo correggere i nostri stili di vita e, nel frattempo, cercare di sopravvivere. Non so come finirà. Speriamo...  

 

Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»! 

Data di aggiornamento: 04 Novembre 2020
Lascia un commento che verrà pubblicato