I folli di sant’Antonio nel mondo

Ecco come la spiritualità antoniana viaggia nelle opere e nelle preghiere di donne e uomini in carne e ossa, negli angoli più sperduti ed emarginati del Pianeta.
16 Dicembre 2021 | di

«Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei» dice il proverbio. Sarà per questo che il volto di sant’Antonio oggi ha tante fisionomie, donne e uomini, religiosi e laici, che portano il suo messaggio e la sua carezza negli angoli più remoti del Pianeta, grazie a Caritas sant’Antonio, l’opera di solidarietà dei frati minori conventuali. Gente di passione, che rischia, agendo spesso fuori dagli schemi. Farne una carrellata è riduttivo, non solo perché non riusciamo a raccontarli tutti ma perché ognuno di loro è un mondo. Padre Giorgio Abram, frate francescano, è morto a marzo per covid, proprio lui che lottava contro le epidemie e aveva speso la vita per sconfiggere la lebbra in Ghana. Una passione che gli è valsa il premio «Raul Follereau».

Ogni tanto riemergeva dalla sua missione: aveva un’eleganza nordica, un’ironia british che però lui aveva sviluppato in Africa, non si sa bene come vista la sofferenza a cui ogni giorno assisteva. Frequentava i massimi livelli delle istituzioni sanitarie mondiali, eppure quando ti incontrava preferiva raccontarti il fatterello sapido sul confratello che preso dalla paura aveva ucciso un cobra con la croce astile. Era anche tremendamente autoironico, rideva ogni volta che ricordava l’episodio in cui, in fin di vita per la febbre gialla, era dovuto scendere dall’ambulanza per aiutare l’autista a cambiare la ruota bucata del mezzo. Mal sopportava la retorica strappalacrime di alcuni missionari, le prediche moraliste, preferiva uno sguardo disincantato, eppure benevolo, sul mondo.

Ammirava invece l’arte di arrangiarsi che aveva appreso dai poveri e che lui utilizzava nelle piccole e grandi cose della sua missione. Quando, dopo 40 anni di lotta alla lebbra in Ghana, i confratelli lo chiamarono in missione a Van Mon, in Vietnam, dove in un grande lebbrosario stavano letteralmente marcendo decine di persone, si rese subito conto che quella non era l’Africa. Stracciò tutti i progetti, frutto di 40 anni di missione, e iniziò da capo. Se si trattava di salvare vite, lavorava con chiunque, con gli sciamani africani o con il funzionario ateo del regime, restando sempre un prete, perché il bene e il male si mescolano continuamente e ognuno di noi è chiamato a trovare la strada con la sua lanterna e una passione nel cuore.

Lucia venne al «Messaggero di sant’Antonio» che era quasi sera. Aveva gli occhi allucinati, la voce tremante, un’ansia controllata. Non c’era nessuno a quell’ora e lei aveva fretta. Laica e infermiera, operava in un campo profughi di una organizzazione umanitaria, al confine con il Rwanda e a pochi mesi da uno dei più terribili massacri della storia, quello fratricida tra hutu e tutsi (1995), almeno 500 mila morti in 100 giorni: «Curo i bambini più piccoli – raccontò – . Hanno assistito ai massacri. Non riescono a rielaborare il trauma, mi stanno attaccati tutto il giorno. Sono diventata un albero di Natale vivente. L’organizzazione umanitaria sta finendo i soldi e abbandonerà il campo. Ti rendi conto? Come possono lasciarli soli? Almeno voi mi aiutate finché ritrovo i brandelli delle loro famiglie?». In realtà Lucia, che non ama rivelare la sua identità, aiutò noi a portare sant’Antonio nei campi profughi accanto ai più piccoli, in una delle notti più terribili dell’umanità. Da allora è una delle referenti più attive di Caritas sant’Antonio in Africa.

Padre Ireneo Barle non è un tipo facile da capire. Barba lunga, voce pacata, parole che sembrano preghiere. Pare cammini sospeso come gli eremiti. È uno «ieromonaco», cioè un sacerdote-monaco, una specie di sintesi tra spiritualità cattolica e ortodossa. A suo modo è una pecora nera, nel senso che i suoi genitori già lo vedevano prete ortodosso con famiglia, e lui no, scelse di essere cattolico a Prislop, in piena Transilvania, in Romania. L'unico cattolico del Paese. Ha una chiesetta, sulla cui facciata troneggia una Madonna dorata e, cosa ancora più strana per uno votato alla meditazione, è padre di un centinaio di figli. Ma chi è? Un folle o un santo?

C'è un’altra stranezza nel suo passato: negli anni di formazione a Roma, mentre stava ramazzando le foglie nel giardino dei camaldolesi, arriva una strana suorina, che gli mette una medaglietta della Madonna nel palmo della mano e gli dice: «Chiedile quello che vuoi». Lui la guarda stranito. Non la riconosce, ma è madre Teresa di Calcutta. Fatto sta che qualche anno dopo ha davvero qualcosa da chiedere alla Madonna: entra in contatto con la realtà degli orfanotrofi rumeni e ne rimane sopraffatto. Quei ragazzi, lacerati e persi, diventano la sua passione, tanto da arrivare fino a Caritas sant’Antonio per chiedere aiuto in loro favore.

Un sari coloratissimo era il suo biglietto da visita. Quando Razia Joseph, attivista pakistana per i diritti delle donne e delle minoranze, arrivava in Italia dalla persona che la ospitava, i bambini del circondario accorrevano a frotte. Lei regalava braccialetti e raccontava loro le storie delle bambine che li realizzavano, mostrando le foto di ragazzine scalze, ma colorate come lei. Un giorno un bambino venne col suo salvadanaio e le disse: «Compragli le scarpe!». Razia si commosse. Era fatta così, sapeva attrarre le anime belle, aveva così tanta passione per le sue ragazze, le reiette, quelle che la società rifiutava e spesso uccideva, da decidere di vivere sfidando i fondamentalisti. «Vedi – diceva con amara ironia – ai loro occhi io ho un sacco di pecche: sono donna, cristiana e attivista».

Riceveva lettere di minacce, viveva cambiando di continuo luoghi e orari come un magistrato sotto scorta. Un giorno scampò a una bomba in casa per miracolo. Aiutava anche le donne dei fondamentalisti. E le donne le avevano costruito attorno un cordone di protezione silenzioso. Si fermava da noi quasi tutti gli anni, nel corso del giro che la portava in Europa per chiedere fondi per la sua Woman Shelter Organization. Accoglienza e formazione erano le sue parole chiave. L’ultima volta che venne a Padova salì sul treno a fatica con la sua valigia piena di scarpe e di giochi per i bambini e la sua borsa di medicinali. Era molto malata, ma non voleva ammetterlo. Fu quello l’ultimo viaggio, anche a nome del Santo.

 


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Data di aggiornamento: 17 Dicembre 2021

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