Crescere nell’amore
«Cari Edoardo e Chiara, sono un cinquantenne sposato da quasi vent’anni e con due figlie adolescenti e un maschio di 10 anni. Non vi scrivo per una questione personale, ma per condividere con voi un’osservazione. Quando io e mia moglie ascoltiamo dei nostri amici sposati, spesso raccogliamo lamentele sull’altro coniuge, su come questo non comunichi, oppure non adempia ai suoi doveri, su come sia solo capace di criticare, su come non condivida un orientamento educativo o altro ancora. In sintesi, molte persone che ci capita di ascoltare si lamentano che l’altro/a non li rende felici perché non li sa amare o comunque non corrisponde ai loro bisogni, mai nessuno si lamenta della propria incapacità ad amare. Mi domando perché siamo sempre così bravi a pretendere che l’altro ci corrisponda e ci appaghi, ma non lo siamo in modo equivalente nel chiedere a noi stessi un cambiamento utile a poter amare veramente chi, il Signore, ha messo al nostro fianco? Grazie per la vostra riflessione».
Giorgio
Carissimo Giorgio, la questione che poni è centrale per la vita di coppia. Confermiamo che solitamente ognuno di noi è concentrato a massimizzare la propria gratificazione personale piuttosto che a lavorare nella propria capacità di promuovere il benessere del coniuge. I motivi di questo atteggiamento sono molti e proveremo, di seguito, a sintetizzare alcuni:
- La natura ci ha dato gli occhi rivolti all’esterno, quelli invece rivolti verso l’interno ce li dobbiamo conquistare. Siamo solitamente più attenti a guardare che a guardarci (a cogliere la famosa pagliuzza invece che la trave). Vediamo quello che non funziona fuori di noi, ignorando, in modo spesso autoprotettivo, le parti di noi verso le quali poter esercitare una sana e costruttiva autocritica. Fin da piccoli avremmo bisogno di avere accanto qualcuno che non ci giudichi dall’esterno (come spesso facciamo noi genitori coi figli), ma che ci educhi invece a guardarci dall’interno, che ci doni dei parametri sani per farlo, che ci indichi qualcosa di grande verso il quale indirizzarci.
- La nostra cultura sulla relazione di coppia ha messo a fondamento della stessa il sentimento amoroso. Crediamo che il sentimento debba alimentare se stesso e che, nel momento in cui non sentiamo più verso l’altro qualcosa di piacevole, questo significhi che il meccanismo si è rotto e che dobbiamo trovare il colpevole (che di solito è l’altro). A nostro parere, lo scopo della relazione di coppia non è il godimento, ma l’evoluzione, la realizzazione di sé nell’apprendistato all’amore (questo, ovviamente, non significa che lo star bene insieme sia irrilevante). La vita non ha posto al nostro fianco un marito o una moglie perché così finalmente potessimo rilassarci e godercela, ma perché diventassimo uomini o donne capaci di crescere nell’amore e, facendolo, realizzassimo noi stessi nella nostra umanità migliore.
- Se facciamo nostro l’approccio del godimento («tu mi servi a stare bene»), allora i limiti, i difetti, le incompatibilità dell’altro risulteranno solo ostacolo al nostro soddisfacimento. Invece, nel momento in cui comprendiamo che l’altro è l’occasione per uscire dai nostri infantilismi permettendoci di diventare così uomini o donne nel senso pieno del termine, allora le sue debolezze, le sue differenze, le sue incapacità diventano la nostra opportunità per imparare ad amare. Perché l’amore gratuito lo possiamo esercitare solo quando l’altro non ci corrisponde. Quando è carino, simpatico e gradevole potremmo anche solo semplicemente apprezzarlo, senza amarlo. Amiamo davvero in modo oblativo solo quando l’altro ci «scomoda», quando rappresenta un interrogativo per la nostra vita e non una risposta.
- Siamo tutti impauriti, insicuri, in continuo assetto difensivo. Non abbiamo fatto pace con la nostra finitudine, con il nostro essere creature. Nel nostro intimo abita una parte che vuole convincerci che siamo degli esseri profondamente sbagliati, che nessuno ci potrà mai amare per quello che siamo, che è terrorizzata dall’idea di non meritare l’esistenza. È l’antico «serpente» che ci suggerisce che per andar bene dobbiamo prenderci quello che non è nostro (cambiando moglie/marito, figli, lavoro, vita, amici, Dio, noi stessi), perché ciò che siamo è insufficiente. Questa voce è spaventosa: il solo ascoltarla fa mancare il terreno sotto i piedi e allora ci proteggiamo da essa proiettando all’esterno le nostre angosce. È come se ci dicessimo: «Se la realtà è così insoddisfacente, non sono io che non vado bene: è colpa dell’altro che non è come dovrebbe essere».
Abbiamo tutti bisogno di ritornare continuamente al Padre e scoprire ogni giorno che non ci dobbiamo meritare l’esistenza, che siamo follemente amati così come siamo, con tutte le nostre povertà. Solo se potremo fare questa esperienza potremo permettere all’altro/altra di essere quello che è, di deporre le armi e imparare, insieme, ad amarci per quello che siamo, povere creature che hanno misericordia della propria e altrui umanità, perché per prime quella misericordia l’hanno ricevuta.
Edoardo e Chiara Vian
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