La prima forma di generosità? L'attenzione
«A chi di voi piace il gelato?». Nonostante l’inverno inoltrato ho pensato di iniziare così, evocando un piccolo piacere universale, una mia recente formazione con un gruppo di adulti con e senza disabilità.
Tutti seduti intorno a un tavolo, una volta appurato che il gelato è effettivamente una golosità apprezzata, dico loro: «Ho beccato un vostro desiderio!». «E qual è il vostro gusto preferito?», continuo. Ovviamente ognuno ne aveva uno. «Perfetto – incalzo – ho beccato due desideri!».
Successivamente ho ipotizzato che un carretto di gelati arrivasse a sorpresa nella stanza, mettendo a disposizione sul tavolo i gusti preferiti di ciascuno. Come fare, a quel punto, a soddisfare il proprio desiderio? È chiaro che, tra i presenti, il desiderio delle persone con disabilità si è subito scontrato con un bisogno piuttosto ovvio, quello, cioè, di un aiuto nel raggiungere il gelato.
A quel punto è stato spontaneo per tutti chiedersi che differenza c’è tra bisogno e desiderio, e che cos’è esattamente che ci identifica come persone capaci di autonomia anche di fronte all’impossibilità oggettiva di poter compiere un’azione.
A questo proposito, di recente, una filosofa politica, Elena Pulcini, professoressa ordinaria all’Università degli Studi di Firenze, ha riflettuto su tre parole che molto hanno a che fare con i concetti di bisogno e desiderio: memoria, dipendenza e vulnerabilità.
Parole che la filosofa cala nell’attualità, in cui il narcisismo è imperante e fa di noi consumatori e spettatori, abituandoci a un rapporto prevalente con noi stessi e con le cose.
La cultura occidentale, continua Pulcini, che costruisce il soggetto moderno come individuo razionale e padrone di se stesso, un individuo capace di progetto, ha messo da parte la dimensione della dipendenza. Che, in realtà, è una parte ontologica, costitutiva dell’essere umano.
Lo sono anche la memoria (la consapevolezza di essere come si è per fattori in parte casuali e in parte contingenti) e la vulnerabilità (l’essere passibili di fallimento, di cadute, di difficoltà). Se questi elementi non stanno insieme all’interno di noi, il soggetto, l’individuo, conclude la studiosa, non è completo e, di conseguenza, non è neppure autonomo. Un legame e un’associazione di idee decisamente affascinanti.
Non accettare la vulnerabilità, che è quindi parte di noi, rischia di avere degli effetti collaterali sull’empatia e la relazione. «L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità», diceva Simone Weil, e io mi trovo piuttosto d’accordo.
Di sicuro, insieme è più facile. Una volta capito che il denominatore comune è la vulnerabilità si può così creare un vissuto di solidarietà, che è una parola che implica sempre che accanto a noi ci sia «qualcuno».
Parlare di realtà solidale a partire dalle individualità è forse allora la sfida che oggi ci spetta. Che dire, fare esperienza della diversità è sempre molto stimolante. E voi, prima che il gelato si sciolga, preferite i sogni o i bisogni? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.