La profezia del dialogo

A tu per tu con Ignazio de Francesco, monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata, fondata da Giuseppe Dossetti, da sempre impegnato nel dialogo interreligioso.
17 Gennaio 2024 | di

«Voi non credete in un unico Dio, ma in tre?», «E mangiate il corpo di Cristo. Siete cannibali?». Vestito da frate, il quasi cinquantenne Ignazio, all’università di Damasco, in Siria, cercava di rispondere alle domande, anche provocatorie, dei suoi giovani compagni di corso, ragazzi e ragazze, per lo più musulmani, che lo aspettavano nei corridoi, a volte anche con piglio aggressivo. «Mi chiedevano di tutto e di più, ma sono state domande fondamentali per riflettere su me stesso, e per cominciare a mettermi nella casa dell’altro». Ignazio de Francesco, monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata, fondata da Giuseppe Dossetti a Montesole (BO), e oggi uno degli islamologi più accreditati nel mondo musulmano, comprende proprio in quella situazione il valore del dialogo interreligioso. «Presuppone una conoscenza di sé molto profonda – spiega –, e anche un forte radicamento nella propria fede. Non è mai dialogo interreligioso quello in cui camuffo un po’ me stesso per avvicinarmi all’altro. D’altra parte, l’altro devo ascoltarlo, nelle sue ragioni, ma anche nella sua narrazione, secondo la quale “Muhammad è l’ultimo dei profeti, la chiave della profezia”. Il dialogo interreligioso ti consente di dislocarti dal tuo punto di vista, metterti in quello dell’altro e, da lì, comprendere meglio il tuo. Guardarsi da fuori è estremamente utile».

Msa. Ci sono due elementi che tu ritieni fondamentali nel dialogo interreligioso.

de Francesco. C’è l’elemento dell’amicizia. L’amicizia è un dato trans-culturale e trans-etnico. Può nascere con chiunque, è veramente universale. La troviamo in tutte le religioni: se ne parla nel Corano, nella Bibbia, è importantissima nel confucianesimo. È la capacità dell’uomo di essere in contatto, in empatia con un altro essere umano, e trascende tutte le differenze. Il dialogo intende anche creare dei rapporti di amicizia. L’altro elemento veramente importante nel rapporto con i musulmani è comprenderne l’aspetto mistico. Loro hanno un fortissimo senso dell’Assoluto di Dio. Quando lo percepiscono anche in te, non possono restare indifferenti. È la nostra adorazione eucaristica che sentono simile alla loro preghiera. Ho avuto modo di chiedere a molti musulmani quando sono diventati consapevoli del valore della preghiera. Mi hanno risposto che la prima volta che ne hanno avuto consapevolezza, è stato quando, pregando, si sono commossi. Lo fanno coincidere con l’inizio dell’età adulta, a 17, 18 anni. Questa commozione nella preghiera è proprio un elemento mistico. Purtroppo, l’islam rischia di oscurare questo elemento, ponendo troppo l’accento sulla religione come comportamento. Che è la sua bellezza, ma anche il suo limite: la ritualità rischia di diventare ritualismo. Ho studiato molto questi aspetti; ne parlo nel libro Etica islamica contemporanea, che esce a breve.

Quanto male fanno al dialogo gli atti di terrorismo nel nome dell’islam?

Il terrore perpetrato con una motivazione religiosa getta una luce cupa sull’intera religione, però da qui a trarre conclusioni radicali ce ne passa. Bisogna trovare un punto intermedio tra chi afferma che l’islam non ha niente a che fare con la violenza, perché è una religione di pace, perché questo rischia di diminuire la portata dell’atto violento, che può indubbiamente trovare nel Corano degli addentellati, e chi cade nell’errore opposto, cioè quello di dire che l’islam è intrinsecamente violento perché, se si finisce su questo piano, si può verificare che la storia millenaria del cristianesimo è stata ben più violenta di quella dell’islam.

Con l’attacco di Hamas a Israele, qualcuno ha ricominciato a parlare di «scontro di civiltà». Siamo daccapo? Tutti cancellati i passi in avanti, compreso il documento sulla fratellanza firmato da papa Francesco con il grande imam di al-Azhar?

Io non credo che quanto sta accadendo, pur terribile, cancelli quanto fatto. Ci sono imam e rabbini che pregano assieme per la pace. Ma questi scatenamenti di violenza interrogano l’uomo, anzi, direi il maschio. I testi sacri, il Corano come la Bibbia, mettono all’inizio della storia umana un omicidio, che è un fratricidio. Gesù stesso, nel vangelo di Giovanni, dice: «Egli è stato omicida fin dal principio», parlando di questo male-persona che agisce nella storia e oltre la storia. Questo non vuol dire ignorare le questioni politiche, economiche, sociali, però, quando avvengono esplosioni di violenza così devastanti, come sta succedendo a Gaza e in Israele, ma anche in Ucraina o nelle guerre d’Africa, ti accorgi che c’è qualcosa che va al di là della ragione degli uomini. E io, da uomo di fede, mi riallaccio all’affermazione di Gesù. Dopo di che, a mio avviso, c’è anche un tratto di genere. C’è un’inclinazione all’uso della violenza omicida da parte del genere maschile, che è un tratto costitutivo della sua personalità.

A proposito di genere. Hai avuto difficoltà nel rapportarti con le donne musulmane?

Nel 2008 mi è stato chiesto di prestare servizio nel carcere di Bologna, con un impegno specifico nei confronti dei musulmani, proprio perché ne conoscevo lingua e cultura. Lì ho potuto rapportarmi con le donne musulmane. Ho potuto parlare molto con loro, anche di questioni intime: la sessualità, il rapporto con il marito, con la religione, l’educazione dei figli, la magia, la superstizione. Ho capito che la donna assume i valori dell’islam in modo più radicale, più serio dell’uomo.

Ci sono questioni culturali che noi occidentali facciamo davvero fatica a comprendere, penso all’omicidio di Saman Abbas, la diciottenne pakistana uccisa dai familiari perché si era rifiutata di sposare il cugino. 

In criminologia, si chiamano reati culturalmente motivati. In Inghilterra, la cultura altra può essere considerata un’attenuante, in Italia no. Ho seguito per molto tempo, in carcere a Bologna, una vicenda simile. Un’intera famiglia implicata nella morte del pretendente della figlia, torturato e ucciso in modo orribile. Eppure la famiglia aveva un altissimo profilo etico. Lì tocchi con mano il nodo della buona coscienza di chi ha commesso un’azione così brutale. La difficoltà è far loro comprendere il disvalore di quello che hanno fatto. E poi c’è il problema dell’educazione culturale degli emigrati. Non è che perché gli dai casa e lavoro, sono integrati. Servono percorsi di educazione alla cittadinanza. Per parlare di integrazione dobbiamo ragionare su almeno cento anni.

Chi ragionava su tempi lunghi era Dossetti. Che cosa ti ha affascinato in lui?

Entrai nella sua comunità nel 1990, affascinato dal suo motto: «Con Dio e con la storia». Da una parte, aveva un forte orientamento alla preghiera e, dall’altra, poiché era stato nella Resistenza, e poi in politica, teneva i piedi nella storia. Nel 1997, i fratelli mi chiesero di andare a prestare servizio nei Territori palestinesi, ad Ain Arich, vicino a Ramallah, dove la nostra Famiglia ha una comunità. L’allora patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, ci aveva raccomandato di pregare sempre in arabo. Così studiai la lingua per poter partecipare alla liturgia. Poi, quando feci la professione monastica, il 25 ottobre, giorno della solennità di Maria Regina della Palestina, eravamo in piena Intifada, il pesante scontro tra ebrei e palestinesi. Dossetti ci incoraggiava a dialogare con tutti, così cominciai a studiare l’islam. Ma, lui, illuminato, aveva a cuore l’Oriente, e io oggi studio la lingua cinese, che mi permette di prendere un po’ di respiro dal mondo semitico, meraviglioso, ma anche caratterizzato da tratti stringenti e oppressivi, come stiamo vedendo in questo periodo.

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Data di aggiornamento: 19 Gennaio 2024
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