Beza Kullu, «che la grazia sia per tutti»
Anni fa sono arrivato a piedi a Lalibela, città sacra dell’Etiopia. Tre giorni di montagna, un cammino breve in confronto ai pellegrini che viaggiano per settimane pur di essere nella chiesa di Biet Mariam, la Casa di Maria, nel giorno di Genna, il Natale dei cristiani ortodossi. Gesù, sul più vasto altopiano dell’Africa, nasce all’alba del 7 gennaio. La notte, l’attesa, fu insonne, notte di preghiera, di canti, il tintinnio dei sistri, la voce salmodiante degli abuna. La folla era una risacca ondeggiante al ritmo di una musica lenta, ritmata. Una trance religiosa. Quando il primo sole illuminò le pietre delle chiese di Lalibela, il grido delle donne riempì l’aria. La gioia della nascita fu immensa, felice, eccitata.
Sarà accaduto anche quest’anno, il miracolo del Natale a Lalibela? Gli amici dall’Etiopia sono pronti a giurare che è avvenuto. A novembre si combatteva ancora nella città santa. Tra milizie regionali ed esercito federale, inestricabili conflitti che, da tre anni, hanno cancellato la pace dal Corno d’Africa. Le guerre nei giorni del sacro sono il dolore più profondo. Un attacco alla speranza. In Palestina, a Gaza, in Ucraina come in Sudan. Ho conosciuto le terre di questa Africa negli anni di sangue di altre guerre e poi ho vissuto il breve tempo irripetibile di una pace troppo fragile. Mai avrei pensato che sarebbero scoppiate altre guerre, troppo vicino il ricordo di quanto avevano lasciato in eredità in un passato recente. E invece… A memoria di uomo, nella storia dell’Etiopia non c’è una sola generazione che non abbia conosciuto un conflitto.
Gennaio, nome del nostro calendario, è un mese santo in Etiopia. Il tempo delle feste più sacre. Il Natale è appena passato e tra pochi giorni, quest’anno bisestile sarà il 20 di gennaio, è Timkat, l’Epifania. Che, a differenza della nostra tradizione, non ricorda l’arrivo dei Magi a Bethlemme, ma il battesimo di Cristo da parte di Giovanni Battista. A Lalibela, Gerusalemme africana, pur di avere un fiume, hanno intagliato uno sperone di roccia per possedere almeno un torrente (sempre in secca) e chiamarlo Giordano.
A Timkat, in ogni villaggio d’Etiopia e di Eritrea, la gente delle città, dei villaggi, delle montagne si ritrova vicino a un fiume, a un lago, a una cisterna d’acqua. La «grande benedizione» è collettiva, è rito di comunità. Una volta, vidi i seriosissimi abuna, dopo aver benedetto l’acqua, indirizzare, in allegria, getti potenti sulla folla. Sulle sponde del lago Ziway, nel grande corridoio della Rift Valley etiopica, applaudii a piccoli preti, ebbri di felicità, mentre versavano secchi d’acqua sulla testa di donne, bambini, uomini, vecchi. Cercai di proteggere le macchine fotografiche e mi offrii al sacerdote che in mano aveva un secchiello colmo d’acqua. Incrociai i suoi occhi, posso giurare che ci sorridemmo, attesi. Ecco lo schiaffo dell’acqua, la sua bellezza, il suo volo, il suo freddo sulla mia pelle. La sua benedizione.
Dall’Etiopia mi è giunto, da parte di un amico musulmano, l’augurio del Natale: beza kullu, che «la Grazia sia per tutti». È così difficile la pace? È così difficile la bellezza del sacro?
(Foto: Timkat, l'Epifania, sulle sponde del lago Ziway, 2018).
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