Un Caffè contro le discriminazioni
Nascosto dietro un anonimo cancello in una zona benestante di Nairobi, il Pallet Café non è semplicemente un bar, ma un luogo di socialità in cui si fa cultura combattendo le discriminazioni, un luogo che diviene perciò metafora di un’epoca, la nostra, nella quale certi valori sono sempre più a rischio. Un locale alternativo, con arredamento e cromatismi che riflettono la serenità inglobata nella sua mission: dare una possibilità di riscatto a tante persone non udenti, e che è affine anche alla topografia di Lavington, considerato tra i quartieri meno affollati della capitale, dove verdi vialetti hanno sostituito lunghe strade polverose e trafficate.
Superato il cancelletto d’ingresso, un piccolo giardino vecchio stile e il mobilio riciclato rendono l’atmosfera familiare, essenziale, spoglia di qualunque fronzolo. Il Pallet è un ritrovo accogliente, ma soprattutto silenzioso, dato che nessuno sente il bisogno di alzare la voce, dal momento che tutti i dipendenti sono non udenti e nella loro vita hanno conosciuto soltanto forti discriminazioni. Per intavolare le discussioni più animate, i clienti scelgono allora di utilizzare il linguaggio dei gesti, mentre nel frattempo il personale si presenta ai tavoli in t-shirt nera con la scritta I am deaf («Io sono sordo»). Ciò che più sorprende di questo luogo, però, è l’incredibile approccio dei visitatori: chi entra finisce inevitabilmente per concentrarsi sull’espressività, imparando da zero un linguaggio nuovo ed è quasi naturale abbassare la suoneria del cellulare o evitare totalmente di utilizzarlo per ascoltare musica o guardare video.
La direzione ha pensato di guidare il pubblico nella comunicazione, scegliendo di appendere alle pareti alcuni poster illustrativi con le nozioni base della lingua dei segni, anche se in realtà basta un po’ di buona volontà per riuscire a dialogare. Il menu è totalmente codificato e, già dalla prima pagina, offre una carrellata di gesti per ordinare senza disagio: coloro che desiderano una bottiglia di acqua fredda mimano semplicemente dei brividi e il cameriere risponde alzando il pollice in su in segno affermativo. Chi ha voglia di un uovo sodo fa il gesto del pugno chiuso, mentre il movimento leggero delle dita è una richiesta palese della cottura alla coque. Un modo efficace per colmare il gap comunicativo e rasserenare gli animi, amplificando al massimo l’inclusione. L’idea che ha guidato la nascita del locale è stata quella di realizzare un comune bar, ma «senza etichette», per disabili: uno dei tanti ritrovi per gente che lavora in smart working o per chi desidera fare due chiacchiere durante una pausa, sorseggiando un latte macchiato.
Ad accogliere i clienti, sempre con un sorriso, è il giovane ventiquattrenne Edward Kamande, nato con un parziale deficit a un solo orecchio. Prima di lavorare al Pallet Café, Edward era impiegato come muratore nei cantieri di Nairobi, ma polvere e fango hanno compromesso del tutto il suo udito. «C’è una grande differenza tra questo ambiente di lavoro e i cantieri, soprattutto per quanto riguarda la comunicazione – spiega Edward –. Qui le persone capiscono la mia disabilità e sono sempre disposte ad aiutarmi». Dopo un lungo periodo di gavetta come capo cameriere, oggi questo ragazzo intraprendente fa parte della direzione commerciale del Pallet. «Grazie a questo lavoro ho potuto frequentare il Karen Technical Training Institute for the Deaf, conseguendo un buon diploma, proprio come una mia collega che ha studiato all’Accademia speciale dell’Aga Khan. Per lei è stato lo stesso: non avrebbe mai immaginato di lavorare con il pubblico».
Ma anche un altro giovane cameriere ha deciso di abbandonare il suo vecchio lavoro: «Si chiama Bonifacio e prima giocava in una squadra di basket, ma non si sentiva a suo agio a causa della sua disabilità. Oggi è grato di far parte della nostra “squadra”, in più qui il pagamento è decisamente migliore e può dimostrare le sue capacità». Per il giovane Edward, questo delizioso bar ha rappresentato un grande salto di qualità: determinazione e un pizzico di buon umore gli sono stati utili per far carriera in poco tempo. «È stato Feisal Hussein, il fondatore del locale, a offrirmi la possibilità di diventare manager, vedendo in me qualcosa di speciale e, soprattutto, la mia buona volontà», continua Edward. Il ricco imprenditore, ex operatore umanitario, cercava infatti per il reparto direttivo qualcuno dotato di buone qualità organizzative, e le ha trovate in Edward che, oltretutto, è dotato di sorprendenti capacità empatiche. «Il nostro compito non consiste solo nel servire uova alla Benedict o piatti tradizionali come lo shakshuka (uova al sugo speziate, ndr), ma anche nell’aiutare le persone con disabilità a entrare nel mondo del lavoro. L’intenzione è quella di supportare la comunità sorda del quartiere e difatti più di tre quarti dei dipendenti sono persone con deficit uditivo», sottolinea il giovane.
Edward adora il suo lavoro ed è particolarmente fiero quando i clienti elogiano il suo personale per l’alto livello di professionalità e per il servizio impeccabile. La piccola caffetteria è diventata la sua grande famiglia e per lui è davvero una gioia riuscire a formare tanti giovani lavoratori. «Il bar ha avuto talmente tanto successo che altre aziende ci hanno chiesto di aiutarle a selezionare e assumere del personale sordo – prosegue Edward –. Quando sono entrato a far parte della squadra, ero molto timido, adesso non lo sono più. Riesco a organizzare il lavoro di tutto il team e supervisiono bilanci e forniture».
Vincere le discriminazioni
Emarginazione e scarsa integrazione delle persone con disabilità sono in Kenya un dato di fatto e numerose sono le associazioni che lottano quotidianamente per scardinare stereotipi e garantire autonomia di vita a tutti. «Nonostante la discriminazione sia vietata dalla nostra Costituzione, nel mio Paese ci sono tantissimi disabili ai quali non viene data nessuna possibilità di lavorare – denuncia Edward –. Il problema è grave in particolare per le persone sordomute, a causa delle loro difficoltà di comunicazione. Gli oltre 600 mila sordi del Kenya continuano a lottare contro i pregiudizi e non hanno neppure accesso all’assistenza sanitaria e professionale né tantomeno all’istruzione di base». Il problema comunicativo non è certo da sottovalutare, se si considera che la lingua dei segni keniana è compresa soltanto da un numero esiguo di persone, da qualche professionista del settore sanitario e da pochi funzionari pubblici. In tutto il Paese mancano validi interpreti, non esiste un sistema riconosciuto a livello nazionale per la registrazione o la verifica delle qualifiche di base e neanche la televisione include la lingua dei segni nei propri programmi.
«Nemmeno a Nairobi la situazione è facile – insiste Edward –. Poco tempo fa un mio amico sordo è stato casualmente fermato dalla polizia per un semplice controllo e gli è stato chiesto di esibire la sua carta d’identità. Non riuscendo a comprenderlo, gli agenti hanno minacciato di portarlo in prigione e lui non è stato in grado di farsi capire. Una brutta esperienza che mostra il bisogno costante di sostegno per le persone sorde a causa di un ambiente troppo ostile». Il Pallet Café è quindi un simbolo di riscatto e coraggio, che garantisce ai giovani sordi una possibilità di carriera. Nella capitale sono stati aperti altri due bar simili, creando anche una partnership con alcune imprese interessate ad assumere ragazzi con disabilità psicofisiche. Per Edward il locale ha rappresentato una svolta anche per la vita personale: qui ha infatti incontrato quella che è diventata sua moglie, Jacqueline, anche lei sorda, che fa parte del gruppo dei camerieri e dalla quale ha avuto Godwin, che ora ha un anno, nato senza alcun problema di udito. «Il Pallet non è soltanto un bar di cui mi sono innamorato, ma un gruppo di amici tra i quali ho trovato il vero amore. Grazie al mio impiego, ho conosciuto Jacqueline e oggi posso dire di essere passato a un “livello successivo”».
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