La prospettiva dei poveri
Una virtù particolarmente scarsa nel nostro tempo si chiama speranza. La speranza non è solo una virtù (è anche un dono, come sottolinea il suo essere stata chiamata dai cristiani virtù teologale), ma è anche una virtù, perché richiede esercizio, soprattutto per non perderla nei momenti difficili, individuali e collettivi (come è quello che stiamo vivendo ora). E chi ha dubbi che la speranza sia una preziosissima virtù economica, lo chieda agli imprenditori, soprattutto a quelli che hanno superato crisi lunghe e profonde, nelle quali il primo cibo è stata la virtù della speranza, morta e risorta molte volte (si esce vivi dalle crisi quando le resurrezioni sono una in più delle morti).
La speranza è qualcosa di più e di diverso dall’ottimismo o dal pensiero positivo. È, prima di tutto, un moto dell’anima e spesso nasce dentro condizioni che non favoriscono né l’ottimismo né il pensiero positivo. Come quando, toccato il fondo, il cuore viene scosso da un venticello leggero, e fiorisce la voglia di ricominciare.
C’è un aspetto molto prezioso della speranza vera, di cui si parla molto poco, troppo poco. Riguarda la scelta, sempre intenzionale (come in tutte le virtù) del punto dal quale vogliamo guardare la vita nostra e quella degli altri. Il punto di osservazione che scegliamo per guardare il mondo è sempre una scelta decisiva.
Possiamo decidere di osservare la nostra società e le nostre azioni ponendoci sul piedistallo dei ricchi e dei potenti (e lo possiamo fare anche se siamo poveri). Da lì, in alto, vediamo il mondo come un grande mercato, una progressiva espansione della libertà di scelta di beni, vediamo crescere i confort della vita, ricchi che pagano poveri per fare le cose che non amano fare. E vediamo i poveri diventare semplicemente le scorie e il prezzo da pagare per questo progresso.
Ma possiamo anche scegliere – magari perché chiamati per nome dalla voce del dolore del mondo – di giudicare mettendoci dalla prospettiva delle vittime. Di vedere lo spettacolo sociale ed economico della terra da sotto il tavolo, mentre raccogliamo, con Lazzaro, le briciole che cadono dal banchetto del ricco Epulone. A differenza della prima, questa seconda scelta di prospettiva non può essere mai astratta e distaccata. Se decidiamo di guardare il mondo insieme con i poveri e gli scartati, non possiamo restare sul nostro piedistallo soltanto a guardare. Dobbiamo scendere nell’agone, metterci accanto a loro.
E, dal loro posto di vedetta, vediamo cose diverse da tutti gli altri, a volte molto brutte, altre di una bellezza infinita. Il cristianesimo ha fatto un grande dono all’umanità quando ha scelto come suo primo simbolo il crocifisso. Poteva scegliere il risorto, ma non lo ha fatto. Ha deciso così quale doveva essere il suo primo punto di vista sul cielo e sulla terra.
Quando si inizia a guardare il mondo con gli scarti e con gli ultimi, quando si impara questa forma (splendida) di speranza, non ci si ferma più. Cambia, ad esempio, il modo con cui leggiamo la letteratura, la poesia, la Bibbia. Quando incontriamo una vittima in un romanzo, soprattutto in quelli grandi ed eterni, mentre la seguiamo nel suo dolore, la amiamo guardandola e stando in sua compagnia. Si spera per lei e con lei. La sentiamo viva e vera, e poi scegliamo di stare dalla sua parte. E così in Renzo, Lucia, Cosette si scoprono i tanti loro fratelli e sorelle fuori dal romanzo.
Qualcuno va ancora oltre. Vede e scopre Giobbe, Uria l’ittita, l’uomo «mezzo morto» che scendeva a Gerico, Geremia nella cisterna, il figliol prodigo nel porcile, e decide di stare dalla loro parte. E poi, esce di casa, si fa prossimo delle vittime che camminano verso le nostre Gerico. E lì, lungo la strada, reimpara a sperare, ricomincia a risorgere.
@bruniluis