La rivoluzione senza veli
Due foto possono descrivere la rivoluzione innescata dalle donne in Iran meglio di tante parole. Il primo scatto è una delle poche foto superstiti, documento di un giorno che il regime degli ayatollah avrebbe voluto cancellare. Quel giorno è l’8 marzo 1979 e quella foto è di Hengameh Golestan, pioniera tra le fotografe iraniane. Siamo a Teheran. L’ayatollah Ruhollah Khomeini è tornato dall’esilio il 1° febbraio, dopo la rivoluzione che ha cacciato lo scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi. L’Iran non è ancora stata proclamata una Repubblica islamica, eppure il 7 marzo viene vietato alle donne di uscire senza il velo islamico, l’hijab. Un fiume di donne, di ogni ceto ed età, invadono le strade di Teheran. Sono vestite all’occidentale, trench e capelli alla moda, i pugni in alto, le bocche stirate in uno slogan. Gli uomini sono pochi, spesso ai margini, più spettatori che attivisti. Sono invece in tante, le donne, forse più di 100 mila, i volti tra l’incredulo e l’indignato. Anche loro hanno fatto la rivoluzione, accanto agli uomini. Sembra impossibile tornare così indietro, eppure quell’8 marzo passerà alla storia come l’ultimo giorno senza velo per le iraniane.
La seconda è una delle poche foto disponibili della rivoluzione oggi in corso in Iran. Internet è controllato o funziona in modo discontinuo, i social media sono bloccati. A postare foto si rischia. Nello scatto siamo ancora a Teheran. È il 22 settembre 2022. Appena sei giorni prima è morta Mahsa Amini, 22 anni. La ragazza, che era di Saqquez, nel Kurdistan, il 13 settembre era in vacanza nella capitale con la famiglia, quando è stata prelevata dalla polizia morale perché non portava correttamente il velo islamico. Le fonti ufficiali dichiarano che Mahsa è morta per infarto, mentre arrivano le prime voci di un pestaggio, di gravi ferite dalle conseguenze nefaste. Il governo traccheggia, minimizza. È la miccia. La rabbia monta, diventa un fiume in piena di giovani che affollano le strade di Teheran, spesso al seguito di ragazze senza hijab, che sfidano la polizia morale. Un fiume di uomini e donne, che sfilano al motto di «Donna! Vita! Libertà!», tre parole che infiammano oltre 160 città in Iran e fanno il giro del mondo. Intanto il regime, preso alla sprovvista, usa il pugno di ferro: aumentano gli arresti, i giudizi sommari e le pene di morte. Una rivolta nata sotto l’egida delle donne si trasforma in una rivolta di popolo, contro un regime repressivo che non ha neppure saputo tenere a bada la grave crisi economica.
Tra la prima e la seconda foto passano quarantaquattro anni, due scatti che testimoniano un cambiamento radicale: dalla quasi assenza degli uomini sulle questioni femminili alla massiccia partecipazione. Che cosa ha portato le iraniane a diventare il perno di una possibile svolta per l’intero Paese? «Il ruolo innovatore delle donne ha radici lontane – afferma Minoo Mirshahvalad, ricercatrice della Universitat Autònoma de Barcelona, sociologa, esperta di diritto islamico e rapporti di genere –. Una figura importante è la leader di un movimento eterodosso sciita del XIX secolo, Fatimih Zarrin Taj Baraghani, detta Táhirih, “la pura”. Fu condannata a morte dal clero sciita, soffocata e poi gettata in un pozzo a Teheran nel 1852 a causa dei suoi insegnamenti». Táhirih era un’influente poetessa e teologa, promotrice del Babismo, religione staccata dall’islam che riconosceva il Corano ma non la sharia, la legge islamica che tanto limita i diritti delle donne. Interessante il ritratto che fa di lei Susan Maneck, professoressa associata della Jackson State University, nel suo libro Donne e Religioni: «Ebbe la fortuna di studiare. Suo padre era un influente chierico musulmano, a cui lei sempre si oppose… A volte si presentava in pubblico senza velo». Tuttavia il suo non era un atteggiamento femminista: «Era soprattutto un atto di innovazione religiosa».
Altra pietra miliare sono i movimenti delle donne verso la rivoluzione costituzionale dei primi anni del XX secolo: «In particolare ricordo il gruppo delle “donne patriottiche” – afferma Mirshahvalad –, un gruppo di donne progressiste che nel 1922 elaborava insegnamenti e offriva servizi agli ospedali. Questa volta a eliminarle è stato Reza Pahlavi, primo scià di Persia». Le donne hanno anche un ruolo importante nella rivoluzione del 1978-’79, contro il regime dello scià: «Per loro era anche una lotta per i loro diritti – spiega la professoressa –. Si velarono addirittura pur di mostrare il loro appoggio ai rivoluzionari». Ma all’indomani della rivoluzione il risveglio è brusco: «Fu abolita la Legge per la protezione della famiglia, del 1967, che sanciva una serie di diritti per le donne, come per esempio il diritto al voto, a viaggiare sole, ad avere la tutela dei propri figli e l’indipendenza economica». Nel 1975 la legge viene revisionata, l’età minima del matrimonio passa dai 13 ai 18 anni.
Ma Khomeini, al suo arrivo, mette subito le cose in chiaro: «Solo le prostitute vanno a votare». Dopo due settimane dal suo insediamento, l’ayatollah abolisce la Legge per la protezione della famiglia e l’età del matrimonio ritorna a 13 anni, limite valido ancor oggi. «Siamo ripiombate di colpo a prima del 1967 – racconta Mirshahvalad –. A tutt’oggi la donna non può sposarsi o avere il passaporto senza il consenso del marito o del padre. In caso d’incidente o di omicidio il risarcimento per la donna sarà metà rispetto a quello previsto per l’uomo». Un ritorno al Medioevo che sotterra la delusione e il risentimento delle iraniane sotto la cenere. Fino a prima della rivoluzione del 1979, il velo non era percepito dalle donne come un problema. Azadeh Tabazadeh, scienziata della Nasa di origini iraniane, l’8 marzo del 1979 aveva 14 anni ed era alla manifestazione delle donne a Teheran: «Dopo qualche minuto che osservavo la folla – scrive nel suo libro-memorandum The Sky Detective –, chiesi a mia madre: “Perché ci sono alcune donne vestite in chador? Non siamo qui per protestare contro il velo?”. “No, stiamo protestando contro l’obbligo del velo. Molte donne che sono qui in chador sono come la nonna, a loro piace indossare il velo, ma non vogliono che questo sia un obbligo per quelle come me o te”».
Le leve della svolta
La novità di oggi è che le ragazze che hanno acceso la rivoluzione non hanno visto l’Iran prima di Khomeini, ma hanno l’eco di questi racconti. Tuttavia questo non è l’unico punto di vista per leggere la rivolta di oggi. «Dopo la rivoluzione – racconta Mirshahvalad – le scuole vengono divise tra maschi e femmine e le ragazze obbligate a portare il velo. Le famiglie tradizionali, rassicurate da questi provvedimenti, iniziano a mandare le figlie a scuola, mentre prima glielo impedivano». La conseguenza è un accesso esponenziale delle donne all’istruzione secondaria. Nel 1990 l’aumento è del 26 per cento, nel 2019 del 67 per cento. «Oggi più del 60 per cento degli studenti universitari – continua la professoressa – è composto da donne». Una conseguenza positiva della rivoluzione, che ha però un effetto paradossale. «Ci sono donne istruite, che arrivano anche a ricoprire posti di rilievo, ma che devono sottostare alle leggi medievali. Questo paradosso ha creato la rivoluzione a cui stiamo assistendo».
L’altra novità è che mentre nel 1979 le donne sono lasciate sole, oggi vengono sostenute dagli uomini: «La rivoluzione in corso – continua Mirshahvalad – incrocia molti malcontenti, non c’è in ballo solo la questione del velo, ma anche quella, per esempio, del carovita e del caro-benzina. Tuttavia è innegabile che la scintilla è stata la morte di Mahsa Amini. Solo poche decadi fa una reazione così non sarebbe stata possibile neppure qui, perché gli uomini si sarebbero vergognati di sostenere una questione “femminile”. Questo, a mio parere, è il frutto di un’evoluzione culturale profonda, da cui non si potrà tornare indietro». Come ciò sia stato possibile in un Paese che ha creato un vero e proprio «apartheid tra donne e uomini», per dirla con le parole di un’intervista della scrittrice iraniana Azar Nafisi a «Repubblica», è, secondo Mirshahvalad, anche un effetto del tipo di femminismo portato avanti dalle iraniane: «La sua caratteristica principale è quella di non essere in contrapposizione con il mondo maschile, ma di includerlo, di chiedergli collaborazione».
Un femminismo che, dal punto di vista religioso, si sta sempre più distaccando da altri femminismi islamici: «Mentre nel mondo arabo musulmano le donne si considerano sia musulmane che femministe, le donne iraniane, dopo quello che è avvenuto, sentono avversione per la religione. Per certi versi mi dispiace, perché lo sciismo, il ramo minoritario dell’islam, ha delle caratteristiche teologiche e rituali di rara bellezza. Ma nella condizione attuale ciò è inevitabile, in quanto i crimini dello stato teocratico sono attribuiti allo sciismo. È la prova provata che è la laicità dello Stato a liberare lo Stato dalla religione e la religione dallo Stato». Un’antireligiosità che è frutto della negazione dei diritti e del controllo del corpo delle donne: un tratto che accomuna più culture. «Io credo che dagli albori del tempo il corpo della donna, la sua capacità generatrice, le mestruazioni, siano stati interpretati dagli uomini come differenze inquietanti e quindi da controllare. Per esempio il velo è una strategia per desessualizzare il corpo della donna». Il velo è ormai anche uno spazio simbolico divisivo, e non solo in Iran. «La questione del velo risale addirittura al V anno seguente il viaggio di Maometto dalla Mecca alla Medina, che ha dato vita al calendario islamico – spiega Mirshahvalad –. Sin da allora il velo è stato l’elemento evidente che demarcava la linea del sé e dell’altro. Durante il colonialismo, ha assunto un significato di lotta contro l’“altro” minaccioso. Ancor oggi, è l’evidenza che mostra l’appartenenza ideologica. È questo che lo fa diventare problematico».
Ed è proprio dal velo che comincia a vedersi il cambiamento in Iran. «Le ragazze oggi escono senza hijab e nessuno le picchia o le arresta per strada – riferisce Minoo Mirshahvalad, tradendo l’emozione –. È quanto mi hanno riferito. Non so se durerà, ma è una novità dirompente, che cambierà il corso delle cose». Ciò che sta accadendo in Iran è la prova che i diritti delle donne sono la spia dei diritti di una società: «Questo concetto molto avanzato – ribadisce la professoressa – è nello slogan della rivolta: Donna! Vita! Libertà! L’esempio più concreto, che non può e non deve esistere una società a diritti diseguali».
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