La scuola della strada e dei poveri
In una delle pagine più belle del libro Cuore di Edmondo De Amicis, Alberto Bottini, il papà di Enrico (il ragazzo protagonista del libro) dice al figlio: «L’uomo che pratica una sola classe sociale, è come lo studioso che non ha altro che un libro». In quella fase post-unitaria era molto importante cercare di «fare gli italiani» superando il mondo feudale e le sue caste. E questo superamento nella direzione della fraternità civile era affidato soprattutto alla scuola pubblica, che stava diventando obbligatoria per i primi anni delle elementari.
Il messaggio per Enrico, figlio della borghesia, era chiaro: fatti amici i ragazzi di tutte le classe sociali, dal muratorino al figlio del fabbro, perché questa amicizia fanciulla sarà decisiva per una nuova amicizia sociale quando diventerete cittadini adulti. Questa frase contiene una grande saggezza. Oggi, infatti, sappiamo che la prima ragione della decadenza di tutte le élite – culturali, economiche, politiche, religiose – sta nella perdita della biodiversità relazionale. Quando un gruppo di persone si sente e si auto-rappresenta come una élite, e quindi smette di frequentare i luoghi di tutti, non ha più amici e conoscenti di culture e condizioni socio-economiche diverse; quando la vita degli appartenenti a questa élite si svolge tra hotel di lusso, campi da golf, ristoranti stellati, senza più il contatto con le persone nella metro, nei mercati, nelle code alla posta, il declino inesorabile di quell’élite è già iniziato.
E lo stiamo già vedendo con l’attuale generazione di manager delle grandi aziende, in profonda crisi antropologica e di senso (anche se ricchissimi), perché da troppo tempo ormai si sono auto-reclusi in mondi autoreferenziali, perdendo contatto anche dai propri lavoratori e operai. L’imprenditore di ieri nella stragrande maggioranza dei casi abitava nelle città di tutti, mandava i figli nelle scuole di tutti, frequentava i bar e i barbieri di tutti, e soprattutto frequentava le fabbriche e le officine dei suoi operai, conosceva il lavoro perché conosceva i lavoratori e lavorava spesso con loro, condividendo odore e ferite. Quando questa auto-segregazione avviene anche per le élite politiche chiamate a governare, i danni sono ancora più gravi. Perché si trovano a perdere l’essenziale competenza nelle materie sulle quali dovrebbero legiferare.
Pensiamo, per un esempio importante, al tema della povertà. Nell’immaginario dei nostri governanti, tra quel milione circa di cittadini che percepiscono in media attorno ai 500 euro mensili di Reddito di Cittadinanza ci sarebbe una significativa quota di colpevoli, cioè persone che potrebbero lavorare e che invece, pigri e fannulloni, preferiscono il divano al lavoro. Poi uno guarda i dati e si chiede da dove provenga questa convinzione forte come un dogma religioso. Chi conosce almeno alcune delle famiglie percettrici di Reddito di Cittadinanza, sa benissimo che se queste persone non lavorano è quasi sempre per qualche problema grave, e che una forma di povertà è anche condurre una vita degradata che ti porta a preferire il divano al lavoro.
Ma la distanza tra i governanti e i poveri veri è un grande problema della democrazia. Troppi politici parlano di poveri in astratto, senza averli mai visti, averci parlato. Fanno così leggi per i poveri immaginati e finiscono per perdere contatto con i poveri veri che, anche per questa ragione, diventano gli scarti della società. Senza una nuova competenza della politica e dei politici, che tornino alla scuola della strada e dei poveri, la distanza tra la vita e il palazzo è destinata inesorabilmente a crescere.
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