L'abito perfetto

Che cosa rende così speciale il saio indossato da san Francesco? Qual è il segreto di una veste tanto umile quanto intramontabile come quella di sant’Antonio? Lo abbiamo chiesto agli stilisti Dolce&Gabbana.
14 Maggio 2021 | di

All’inizio degli anni Novanta, di ritorno da una vacanza a Istanbul, ci eravamo portati dietro un po’ di tessuti, tutti diversi. C’erano broccati d’oro, passamaneria, stampe floreali, tulle, semplici garze di cotone, scampoli intarsiati. Alcuni li avevamo presi proprio dai veri nomadi. Li abbiamo messi insieme alle nostre scorte, cucendo uno scampolo accanto all’altro in ordine sparso e nello stesso tempo studiatissimo, e li abbiamo usati per realizzare la collezione per l’estate 1993. Circa trent’anni dopo, quasi inconsciamente, è tornato in noi il bisogno di esplorare quella tecnica, il patchwork, che ci sembra il simbolo perfetto dello stare bene insieme in un momento così complicato come quello che stiamo vivendo: il patchwork come atto di unire, non sprecare, condividere, rispettare, in un’era che potrebbe invece spingere verso la disgregazione.

Rimettere insieme i pezzi, ridare vita a ciò che è stato abbandonato, e farlo con amore. È questo il primo pensiero che ci viene in mente guardando le toppe del saio di san Francesco, la particolare cura con cui sono cucite, l’armonia del risultato e le diverse trame, che raccontano vite ed esperienze appartenenti a chissà quante persone. Non è curioso che la parola «trama» sia la stessa, che si parli di tessuti o di storie? Se pensiamo che è probabile sia stata santa Chiara a cucire alcune di quelle toppe, ricavandole dal suo mantello, quell’idea di amore che unisce e rammenda acquista un significato ancora più profondo, di amicizia e rispetto senza eguali.

La semplicità dei materiali, il colore intenso della terra, la silhouette pulita, ma ampia e comoda: le caratteristiche che la tonaca di Francesco condivide con quella di sant’Antonio ci fanno pensare a quelle di un completo da lavoro, una divisa. Qualcosa che per sua natura deve essere pratica, senza fronzoli, che non intralci né distragga, adatta alla vita dei campi, come a quella di bottega: non sono forse questi i tratti distintivi dell’abbigliamento di un artigiano, che veste in modo umile e dimesso mentre realizza incredibili meraviglie? Un’altra fortunata coincidenza per noi, che ci riporta a un mondo che amiamo, così semplice eppure capace di generare bellezza dal talento manuale dell’essere umano.

Una divisa, dicevamo, ma scelta volontariamente. Un abbigliamento che ti renda riconoscibile e nello stesso tempo fiero di appartenere a qualcosa, a un codice di ideali. Che esprima la tua personalità, le tue passioni, quelle di una vita o quelle passeggere: perché il vestito perfetto è quello che ti fa stare bene, che sia un abito da sogno in chiffon, una t-shirt bianca e un jeans o una tunica di tela grezza. Il nostro lavoro, quello degli stilisti, è mettere a proprio agio le persone e creare qualcosa che regali loro un sogno e ne valorizzi la bellezza, non tanto intesa come qualità fisica, quanto piuttosto come un vero e proprio stato dell’anima: quell’energia che viene da dentro e che ci rende radiosi, se solo glielo permettiamo.

Francesco (che da giovane commerciava stoffe preziosissime con il padre!) ha disegnato per sé un abito così umile eppure così potente ed evocativo, da far invidia alle più importanti passerelle, perché riesce a raccontare a colpo d’occhio e in modo autentico l’intera vita di chi lo indossa. I suoi seguaci, come Antonio, se ne procurano subito uno simile, perché si identificano con coraggio nella sua stessa visione del mondo, lo acclamano e vogliono essere come lui. In fondo, il Francesco di oggi sarebbe una rockstar, un influencer con una bellissima storia da raccontare ai giovani e un abito ecosostenibile e incredibilmente speciale.


Un capo... da santi

di fra Fabio Scarsato

Il realtà, il saio francescano, niente più che una tunica di sacco, con cappuccio per ripararsi da sole e pioggia, rappezzata alla bell’e meglio e perciò con un risultato alquanto arlecchinesco, cinta ai fianchi con una corda, non fu nemmeno il primo abito che Francesco d’Assisi e Antonio di Padova scelsero di indossare. Entrambi passarono dal guardaroba di lusso che poteva offrire loro la famiglia alla tunica eremitica semplice, con la cintura ai fianchi, il primo dei due, all’elegante divisa religiosa dei canonici agostiniani di Lisbona, il secondo. Succederà all’ascolto del Vangelo nella chiesetta della Porziuncola che Francesco smetterà l’abito eremitico, per scegliere per sé il grezzo e povero saio, mentre Antonio, spogliatosi dell’abito canonicale, lo indosserà nel passaggio ai frati minori, presso la chiesetta di S. Antonio dos Olivais.

Un capo d’abbigliamento, quindi, che come tutti gli altri gioca sul «velare» e lo «svelare», sull’indossare e sul denudarsi. Almeno nel senso che, anche in seguito, più di una volta sia Francesco che i suoi compagni si spoglieranno nudi. Se non altro perché un abito «condiviso», in realtà, non arriva mai a essere «posseduto» nemmeno da colui che lo indossa: «Tanta pietà aveva frate Ginepro per i poveri che, quando gli capitava di incontrare uno più povero di lui nel vestito, immediatamente donava al povero la manica, il cappuccio o un qualche pezzo scucito dall’abito. Perciò il frate guardiano gli ordinò di non donare più nulla ai poveri, né la sua tonaca né una parte di essa. Sicché, quando gli capitò una volta di incontrare un povero che chiedeva l’elemosina, tutto preso dalla compassione gli disse: “Non ho nulla che possa darti se non la tunica, ma, legato al precetto dell’obbedienza, non posso farlo. Se però tu volessi prendermela, io certo non te lo proibirei”. Al che il povero lo spogliò, si prese l’abito e se ne andò, lasciandolo lì nudo» (Vita di frate Ginepro). 


Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!

Data di aggiornamento: 18 Maggio 2021
Lascia un commento che verrà pubblicato