L’albero di Betlemme

Il 6 dicembre, nella piazza della Mangiatoia, a Betlemme, è stato illuminato, dopo due anni di buio e silenzio, un grande albero natalizio sormontato da una stella. La piazza era piena. I ragazzi l’hanno popolata, i caffè erano affollati. I commercianti hanno riaperto i negozi. Interviste a giovani ragazze che non nascondono la loro felicità. Inni e preghiere. Qualche timida danza. Almeno per una notte. Niente fuochi di artificio, niente banda. Il tempo terribile non è certo finito, ma le luci dell’albero e una allegria sono un sollievo per la comunità cristiana e per i musulmani della città che ha visto nascere Gesù. Mi raccontano che sono venuti, affrontando i check-point israeliani, anche da Ramallah, da altri Paesi della Palestina.
Già, la Palestina, raggiunta una tregua fragile e squilibrata, è quasi scomparsa dagli orizzonti dei giornali e dei volubili social. Le armi avrebbero dovuto tacere: in due mesi, dopo le intese di Sharm el-Sheick, a leggere i rapporti di Amnesty International, sono stati uccisi 386 palestinesi. 136 erano minori. Tre soldati israeliani sono stati vittime di combattimenti. Amnesty condanna le azioni di Hamas e di altri gruppi armati come crimini di guerra e non teme di usare la parola genocidio per quanto commesso da Israele a Gaza. Il governo di Tel Aviv ha annunciato la costruzione di 764 nuove «unità abitative» nella Cisgiordania occupata. E il ministro delle finanze di Tel Aviv, l’ultranazionalista Bezalel Smotich, ha rivendicato che nei suoi tre anni di mandato, è stata autorizzata la realizzazione di 51mila 370 palazzine nei territori palestinesi. Due popoli, due stati? «La sola soluzione» ha detto papa Leone XIX mentre era in volo verso Beirut. «Ma sappiamo che Israele non la accetta» ha aggiunto. Non c’è niente di semplice in questa terra ferita.
Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca dei Latini di Gerusalemme, frate francescano, non ha paura delle sue parole: «Pagheremo a lungo le conseguenze di questa guerra. Per troppo tempo si è dato spazio agli estremisti che hanno usato un linguaggio di disprezzo e di esclusione. Ci vuole una nuova leadership, servono gesti che riportino un po' di fiducia tra la popolazione».
«Abbiamo deciso di riaccendere la speranza» ha detto il sindaco cristiano di Betlemme, Maher Canawati. Almeno un «barlume». Per padre Ibrahim Faltas, direttore delle scuole della Custodia di Terra Santa, anche lui frate francescano, la riaccensione dell’albero di Betlemme è «una dichiarazione di esistenza». Un atto di fede
Papa Leone XIV, nel suo viaggio tra Turchia e Libano, agli inizi di dicembre ha dato un appuntamento: «Tutti a Gerusalemme». Nel 2033. Tra otto anni. Sarà il bimillenario della Passione, Morte e Resurrezione di Gesù. Papa Prevost si augura che sia possibile un incontro nella sala del Cenacolo, il luogo dell’Ultima Cena, con le chiese cristiane ortodosse separate da mille anni. La forza della speranza.
C’è stata la visita alla grande moschea di Istanbul. In Libano, Leone XIV è salito nelle montagne del Nord per raggiungere il monastero di San Maron, luogo di miracoli e pellegrinaggio dei cristiani maroniti dove sono conservati i resti dell’eremita del santo taumaturgo, Charbel Makhlouf. Il monastero è sacro per cattolici e ortodossi. È meta venerata di drusi e musulmani. Le religioni qui si trovano fianco a fianco. In Libano, terra di diciotto confessioni religiose e con un passato feroce di guerre civili tra fazioni confessionali, questo luogo ha un significato particolare, spiega Youssef Matta, uno dei sedici monaci che vivono a San Maron: «Pregare qui è un atto potente, capace di rafforzare il ruolo del Libano come terra di coesistenza».
È altrettanto vero che appena una settimana prima del viaggio di Leone XIV in Libano, Israele ha bombardato Dahiyen, il quartiere meridionale di Beirut, abitato principalmente da musulmani sciiti, uccidendo assieme ad Haytham Ali Tabatabai, capo militare di Hezbollah, altre cinque persone. Durante i giorni della visita del Papa, i cieli di Beirut sono stati, per una volta, silenziosi e tranquilli. Non appena l’aereo di Leone XIV è decollato, il ronzio dei droni è subito ripreso sfiorando i tetti dei palazzi della città. E, tra pochi giorni, entro il 31 dicembre, le milizie di Hezbollah dovrebbero consegnare le sue armi e Israele dovrebbe ritirarsi da villaggi che occupa a Sud. Irrealistico, anche solo sperarlo.
Si dimentica Gaza. Si è sempre dimenticato il Sudan. Per pigrizia e impotenza scriviamo che questa è una «guerra dimenticata». Diciamo sempre così quando non abbiamo voglia di guardare la realtà. Non la dimentica certo chi potrebbe fermarla, come chi avrebbe potuto arrestare il genocidio a Gaza. La guerra in Sudan è solo oscena, una guerra tra due generali sanguinari. Non ci sono vere ragioni politiche o religiose, è solo potere, rivalità personale, soldi, feroce e lucida pazzia. In nome di questo si uccide. E si postano su Facebook i propri crimini. Le vittime hanno volti di terrore, chi registra l’orrore ha la sua eccitazione ubriaca. Sono arrivati i droni anche in questa Africa devastata: pochi giorni fa hanno sganciato bombe su un asilo in Kordofan, ne sono rimasti vittime cinquanta persone, 33 erano bambini. Ad al-Fashir, capitale del Darfur settentrionale, occupata dalle milizie paramilitari, sono state uccise, dopo la resa della città, almeno settemila persone. Le esecuzioni sono state filmate con i cellulari e messe in rete.
E allora, ben sapendo tutto questo, ho voglia di tornare a Betlemme. Di rimanere una notte nella piazza, guardare quelle piccole luci colorate e la grande stella su in alto. Aspetto la notte di Natale, dei due Natali. Fu Yasser Arafat, leader storico dei palestinesi, a dichiarare festa nazionale, in una terra musulmana, i due Natali dei cristiani, il 25 dicembre dei cattolici, il 7 ottobre degli ortodossi. La città dove è nato Gesù ha coniato un incitamento, un incoraggiamento, per questi giorni sacri e per il ritorno dell’albero di Betlemme: «Alzati e risplendi». Questo albero è «necessario». Ne abbiamo bisogno.
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