L'autentico? Uno spazio in versi
Non credo di essere un buon intenditore di poesia, ma un buon lettore sì, e ho avuto la fortuna di aver conosciuto alcuni grandi poeti, Sereni Giudici Morante Rosselli Ortese Zanzotto Penna Pasolini Luzi Fortini Roversi Bandini Raboni Orelli ormai scomparsi, e tanti, tanti altri. Per i casi della vita, e per la scelta di praticare un certo tipo di persone e non altre, e perché, infine, la mia forma di «militanza» culturale essendo stata quella di fare riviste, su quasi tutte le riviste di cui sono stato uno degli artefici e su tutte dopo il ’68, non c’è stato un solo numero in cui non comparissero delle poesie, quasi sempre inedite e quasi sempre chieste direttamente a un poeta contemporaneo, talvolta straniero.
È appena uscito da Sellerio un saggio agile e convinto di un poeta statunitense, Ben Lerner, dall’intrigante titolo Odiare la poesia, e la sua lettura mi ha confermato in molte convinzioni. Grazie a un suo traduttore italiano (e amico), Damiano Abeni, ho potuto pubblicare i versi di Lerner più di una volta, e avendo letto anche un suo lodato romanzo, mi sono convinto che Lerner è migliore come poeta che come narratore. Sconta, nel romanzo, l’appartenenza a un mondo newyorkese asfittico e autoreferenziale, narcisisticamente «minimalista». Ma quel che non funziona nella narrazione può evidentemente funzionare nella poesia, ed evidentemente la sintesi richiesta dal verso può dare più del racconto.
Ma non è delle poesie né del romanzo di Lerner che volevo parlare bensì della necessità della poesia. Il suo saggio parte da una poesia brevissima di una grande, Marianne Moore, che vale la pena di riportare. Si intitola, guarda guarda, La poesia, e dice in quattro versi: «Neanche a me piace. / A leggerla, però, con totale disprezzo, vi si scopre, / dopo tutto, uno spazio per l’autentico». È questo spazio ad affascinare Ben Lerner, nonostante tutto. Nonostante che i lettori di poesia e i poeti e poetesse siano in genere languorosi o pomposi frustrati che credono, «andando a capo» (come diceva di loro Elsa Morante), di «illuminarsi di immenso» come scrisse Ungaretti, un poeta dell’altro ieri autore di versi molto migliori di questo.
Perché «lo spazio dell’autentico» è così importante? E perché non è che in rari casi (di chi sa «sentire», e cioè ascoltare e interrogare sé e il mondo, e di chi poi sa dirlo, e non conta se in versi o in prosa quando si tratta di un artista, o nel linguaggio comune quando si tratta di una persona comune che bensì soffre e sente e sa sentire) che la poesia diventa Poesia? Non diversamente da come il pensiero diventa Pensiero, di come la preghiera diventa Preghiera... Un aiuto a restare vivi.
Nella nostra società e nelle sue convenzioni letterarie la Poesia ha una funzione che può certamente essere «consolatoria», ma solo se lo è a livelli alti e ambiziosi, se cioè aiuta la conoscenza di sé e ripropone in modi sempre nuovi anche quando più antichi le antiche, eterne domande: «Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?» aiuta a capire e a vivere, cercando il senso, tentando la strada.