Lavorare in dialogo
Il mondo del lavoro rimane un luogo molto concreto dove si gioca buona parte della possibilità di avere una vita felice e dotata di senso. Dove ci incontriamo gli uni gli altri nella nostra umanità, con tutta la sua bellezza e i suoi limiti. Non è mai stato facile, però, capirsi e andare d’accordo. Lavorare insieme è sempre un esercizio difficile, che mette a prova l’umanità di tutti. Oggi i problemi del lavoro sono tanti. Precarietà, giusta retribuzione, eguaglianza di genere, carenza di manodopera, lavoro immigrato, riconoscimento delle diversità, formazione permanente, cambiamento dei percorsi di vita, smaterializzazione dei compiti: quanto è cambiato il modo di lavorare. E quanti cambiamenti, ancora più radicali, sono attesi con la digitalizzazione.
E poi, in futuro, il lavoro sarà ancora per tutti oppure si radicalizzerà la spaccatura tra un gruppo ristretto di professionisti ad alto reddito e buon ingaggio motivazionale - una maggioranza mantenuta nei suoi livelli di consumo (grazie alle tante forme di rendita privata o pubblica) - e un sottoproletariato sfruttato nelle attività meno gradevoli e più faticose (assistenza degli anziani, pulizie, costruzioni, ristorazione)? In un mondo attraversato da così profondi cambiamenti e da forti lacerazioni, il rischio è che il dialogo non riesca più a darsi, spingendoci a una continua oscillazione tra isolamento, indifferenza e conflitto.
Le scienze umane oggi ci dicono che il linguaggio è un’arma a doppio taglio: mentre ci mette in comunicazione reciproca e ci orienta all’universale, allo stesso tempo irrimediabilmente ci separa dall’altro. Ciò è ancora più vero proprio nel mondo del lavoro, dove riemerge sempre la spinta verso quella che Romano Guardini ha chiamato «la progressiva astrazione», caratterizzata da distacco, divisione, alienazione. Il problema è che ci dimentichiamo che il dia-logo è una parola composta da logos (che vuol dire parola) e dalla preposizione dia, che nella lingua greca indica l’idea di movimento: per mezzo, attraverso, dopo, per merito o colpa, a causa di. Ciò significa che il dialogo non è mai una cosa statica, ma è sempre un movimento, un processo trasformativo. Di sé e del mondo circostante.
Purtroppo nella società attuale – dove tutto e tutti sono tenuti a distanza – stiamo perdendo la capacità di stare in dialogo, finendo così per irrigidirci su posizioni conflittuali. Un tale effetto lo si vede molto bene proprio nei contesti organizzativi e del lavoro dove – al di là delle buone intenzioni – ciascuno viene schiacciato, o si richiude, in una certa posizione, senza che gli sia riconosciuta la capacità di essere un soggetto capace di esprimere una propria originalità. Di fronte a tale difficoltà, occorre tornare a riflettere sull’idea dell’altro come qualcuno che è prezioso perché è portatore di uno «sguardo» e non solo come un oggetto da guardare e definire.
Ma questo che cosa può significare? Il filosofo e teologo Raimon Panikkar ci parla di «dialogo dialogico» (cioè che mira alla reciproca conoscenza, ndr) e non «dialettico» (che cioè mette a confronto tesi contrapposte, ndr) a partire dal riconoscimento della struttura dialogica che caratterizza l’essere umano. Noi oggi sappiamo, infatti, che la scoperta e la costruzione della propria identità avviene nell’incontro con l’altro. Ci è possibile capire chi siamo attraverso lo sguardo degli altri su di noi. Per paradosso, si può dire allora che la tendenza alla cristallizzazione dei nostri rapporti sociali – dove noi siamo fissi sulle nostre posizioni e teniamo a distanza gli altri – è guarita proprio dalla ferita-feritoia che nasce dalla provocazione che ci viene dall’altro. Di cui facciamo esperienza ogni giorno sul posto di lavoro.
Panikkar ci suggerisce una via diversa. Dove il dialogo dialogico può essere visto come un movimento (dia-logos) in grado di cambiare tutte le parti coinvolte. Ciò è possibile grazie a due dinamiche fondamentali. In primo luogo, il movimento tra stabilità e cambiamento: una realtà umana viva è una identità capace di cambiare rimanendo se stessa. Noi non siamo identità statiche, ma soggetti di individuazione (capaci, cioè, di mettere insieme, nel tempo, le varie parti di noi stessi, ndr). In secondo luogo, la tensione tra particolare e universale che è ciò che ci salva dalla doppia deriva di un particolare che decade a frammento insensato e di un universale che scade in pura astrazione. Molto concretamente, un tale movimento dialogico si sviluppa su tre piani: cognitivo (conoscenza o ignoranza dell’identità dell’altro); pratico (si conosce l’altro impegnandosi in progetti comuni); mistico (c’è qualcosa al di là di ciò che già siamo che ci aspetta e ci unisce).
Possiamo pensare il dialogo dialogico come una figura della trascendenza (che, come la fecondità, è capace di far nascere il nuovo). Ciò vuol dire che il dialogo dialogico è una relazione con ciò che non è ancora, che non si limita a ripetere la posizione di partenza, ma la interrompe, dando vita a una generazione, che è insieme trascendenza e separazione. Una tale trascendenza non può essere controllata fino in fondo e, anzi, ci porta al di là di noi stessi: e questa è una cosa sempre difficile da assumere davvero fino in fondo. Forse si può dire così: nel dialogo dialogico non c’è un ritorno al punto di partenza, senza però che ciò voglia dire la dissoluzione nella posizione dell’altro.
Ciò che si genera attraverso la trascendenza del dialogo dialogico è piuttosto un punto di libertà interiore che ci apre dall’essere-per-noi-stessi all’essere-per-altri. Questo è fondamentale rispetto alla possibilità di riallargare i confini del logos (tema caro a Benedetto XVI) che continuamente sembrano chiudersi proprio all’interno dei luoghi di lavoro. E sta a dire che la strada per umanizzare il mondo del lavoro è ancora lunga e bisognerà lavorare molto per far sì che la digitalizzazione non peggiori la situazione, isolandoci sempre più gli uni dagli altri. La strada del dialogo ci appare ancora oggi molto lunga e irta di difficoltà. E, tuttavia, è l’unica entusiasmante e capace di condurci verso quel tempo nuovo a cui tutti aneliamo.
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