Trovare consolazione
Centocinquant’anni fa, il 22 maggio, moriva Alessandro Manzoni. Le celebrazioni sono cominciate da un po’, e anche le discussioni, i silenzi, certi imbarazzi. I promessi sposi viene letto a scuola, ancora oggi, e c’è chi dice che è troppo difficile. Lessico, argomenti, contesti lontani e complessi, incomprensibili per i nostri studenti e le nostre studentesse. È possibile che sia così, che sia necessario trovare autori più vicini che sappiano raccontare il sopruso, l’offesa, la resistenza. E poi la miseria di una fede accomodata come quella di don Abbondio, o fiera e combattente come quella di fra Cristoforo, o colta, consapevole, santa come quella del cardinal Federigo. Ma per la fede questo romanzo è una piccola miniera.
Quando racconta del modo sconcio e blasfemo con cui la piccola Gertrude viene indotta dal principe padre a diventare monaca, a un certo punto Manzoni scrive: «È una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa. Se al passato c’è rimedio, essa lo prescrive, lo somministra, dà lume e vigore per metterlo in opera, a qualunque costo; se non c’è, essa dà il modo di far realmente e in effetto, ciò che si dice in proverbio, di necessità virtù» (capitolo X).
Non suona bene alle nostre orecchie moderne. Sembra acquiescenza. Una rinuncia al vero sacro diritto alla felicità personale. Ma come? Se lei, Gertrude, voleva essere sposa, o comunque non monaca – questo rimane chiaro in ogni passaggio della storia –, e per una serie di sì estorti, emotivamente estorti, rimane imprigionata per sempre in una condizione che non desidera, come si può scrivere un’enormità di questo tipo? E poi: noi cristiani la sentiamo vera? O la percepiamo violenta, eccessiva, inadeguata alla realtà delle nostre uniche preziose vite?
La vicenda di Gertrude è estrema, tanto che è diventata in mille modi emblematica della violenza nascosta delle relazioni, sociali e anche famigliari. Ma probabilmente a molti di noi capita di trovarsi in qualche modo prigionieri delle circostanze, oppure della propria storia, che da lontano ci ha condizionato a scegliere male. Esiste un non detto, nelle storie di famiglia, che condiziona quello che noi siamo anche se non lo sappiamo, ad esempio. Oppure, semplicemente, alcune scelte le abbiamo fatte in situazione di emergenza, o di fuga, o di confusione emotiva.
Come si fa, allora? È vero che la fede offre consolazione anche in queste situazioni? Il Vangelo non conosce l’esercizio del giudizio tranchant. I «guai a voi!» di Gesù non sono condanne, sono inviti a uscire dalla falsità, dall’uso strumentale della fede. Mai nel Vangelo si giudica chi con fatica affronta il vivere quotidiano, quale che sia. Però ci sono degli incontri. La samaritana ha una situazione molto complicata. Oggettivamente non è chiaro come uscirne e infatti Gesù non le dà istruzioni di vita, la riporta alla sua verità. Non sappiamo che cosa ha fatto dopo l’incontro. Intanto ha trovato qualcuno che non ha paura della verità e le parla, la accoglie.
Poi c’è la parabola del vino nuovo in otri vecchi. Non è una parabola conciliatrice, è una parabola esigente. Non finisce dicendo che è sufficiente riparare gli otri vecchi e tutto va bene. Dice che la storia è un’altra, che tutto è nuovo a partire dal Vangelo. Anche la capacità di amare. Ecco, trovare consolazione in qualsiasi circostanza è una possibilità, non un comandamento, un obbligo. Senza giudicare, pronti ad accogliere ogni infelicità, ma sì, l’esperienza di essere infinitamente amati da Dio può forse diventare esperienza di poter amare qualsiasi condizione in cui ci troviamo.
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