23 Giugno 2020

L’orto dei frati

Parlo con molti amici: quasi tutti hanno già nostalgia dei giorni del confinamento. Tutti hanno avuto «tempo». Uno dei beni più preziosi, uno dei beni che più scarseggiano.

Fra Alex ripulisce dalle erbacce l’orto della comunità francescana di Noventa Padovana.

Scrivo con difficoltà e qualche imbarazzo. Penso ai morti della pandemia. Nel giorno in cui butto giù queste righe, le vittime del virus, in Italia, sono 39.964. Nel mondo sono 406.807. Numeri che saranno ben più alti quando leggerete questo post. Il numero esatto è importante. Ognuna di queste persone, conta.

Eppure, questa mattina ho parlato con un amico barista, uno abituato a lavorare dodici ore al giorno: «Era da quarant’anni che non avevo tempo per me. Finalmente ho potuto cenare con tranquillità con la mia famiglia, andare per i boschi, avere tempo per i figli». Parlo con molti amici: quasi tutti (io vivo sotto gli Appennini) hanno già nostalgia dei giorni del confinamento. Tutti hanno avuto «tempo». Uno dei beni più preziosi, uno dei beni che più scarseggiano. È accaduto anche a me.

E allora penso – ero da lui quando il virus ha cominciato a infuriare in Italia – all’ex-presidente dell’Uruguay. Il vecchio Pepe Mujica. Che sempre dice: «Noi crediamo di comprare le “cose” con il denaro. No, le compriamo con il tempo impiegato a guadagnarlo». Ma poi penso anche ad altro che Pepe ha detto. Allora era seduto sulla poltrona di presidente dell’Uruguay e ricordava i suoi anni di prigionia durante la feroce dittatura degli anni ‘70: «Ogni tanto la mattina mi sveglio e rimpiango la mia cella, non ho mai avuto tanto tempo, come allora, per essere me stesso, sono stati gli anni più terribili della mia vita, ma anche quelli da cui più ho imparato».

Poi leggo Adriano Sofri e la sua memoria degli anni spietati della guerra a Sarajevo. Lui, come altri, sa cosa è «essere sotto le bombe». Eppure «finita la strage e l’umiliazione, non mancò chi dicesse di rimpiangere l’assedio, il cielo stellato disinquinato e la fraternità che si era insediata negli animi di persone accomunate dall’aggressione».

Io ho nostalgia del silenzio della città: salivo su una collina, avevo questa grande fortuna di trovarmi in campagna, e guardavo Firenze. Immobile e senza traffico. In questi giorni sono tornato su quel poggio e il rombo di fondo delle macchine è, oggi, la colonna sonora di quel paesaggio bellissimo. Non si sentono più gli uccelli, né il fruscio delle foglie mosse dal vento. Ne ho provato fastidio. Poi mi sono subito riabituato.

Vero posso solo immaginare, cosa sia stato essere rinchiusi in quattro in un appartamento alla periferia di Milano. Per questo, mi scuso con chi non ha avuto la mia fortuna. Ma più che una ripartenza, quanto sta accadendo mi appare una retromarcia.

Giorni fa, ho alzato gli occhi (e la macchina fotografica) e ho guardato fra Alex. A piedi nudi, in pantaloncini corti, sorridente e allegro: con le mani stava ripulendo dalle erbacce l’orto della comunità francescana di Noventa Padovana. Quest’anno, come non mai, l’orto dei frati è stato generoso. Carciofi, cetrioli, fragole, lamponi, fiori di zucca. Quest’anno vi è stato tempo di avere cura dell’orto. I ragazzi, ospiti del Villaggio Sant’Antonio, hanno esplorato ogni palmo del grande parco. Certo un grande privilegio, ma da quanto non accadeva? Da quanto non si godeva di una simile «libertà»? Ed è accaduto proprio nel momento in cui ci era impedito di uscire di casa.

Ci vuole davvero una prigionia, una guerra, un virus per riuscire a godere di quanto abbiamo attorno? Godere di un cielo stellato, di un orto, del camminare in un parco, di una cena in famiglia? Possibile che bisogna essere chiusi in una cella per donarsi tempo, per «essere se stessi»?

 

Data di aggiornamento: 23 Giugno 2020
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