Lui pensa solo a sé
«Cari Edoardo e Chiara, ho sposato circa vent’anni fa un uomo che si è rivelato con chiarezza solo dopo il matrimonio: di natura buona, ma con fragilità che non gli consentono di avere una maturità nelle relazioni affettive. Vive un profondo disaccordo con i propri genitori, dai quali si è sentito oppresso e rifiutato, e nel matrimonio non si coinvolge mettendosi in gioco, neanche con i nostri figli (è sulle mie spalle la gestione della famiglia, della casa, delle relazioni con il vicinato, con la parrocchia…). L’unico ambito nel quale mio marito ha un sogno e si coinvolge a 360 gradi è quello lavorativo, al secondo posto viene la cura della dieta e il fare sport. Quando provo ad affrontare queste tematiche con lui mi trovo davanti una persona non consapevole del significato e del valore del matrimonio e della famiglia: mi sento una rompiscatole antiquata.Per me è doloroso questo rapporto e mi chiedo che senso abbia stare assieme.Poi mi ricordo dell’amore che Dio ha per ciascuno, per me, per lui… e così lo smarrimento passa, cerco subito di mettermi ad amare. Ma un matrimonio, senza condivisione di significati, di feste passate assieme, di reciprocità, che valore può avere?».
Annalisa
Carissima Annalisa, ci accostiamo a te con tutta la tenerezza e la compassione (il patire assieme) che ci sono umanamente possibili. Non è facile vivere quotidianamente questa fredda lontananza da parte di chi desidereresti vicino e affettuoso. Ci domandiamo (e in particolare me lo chiedo io, Edoardo, come uomo) perché così tante donne si ritrovino sposate con uomini che poi risultano molto centrati sul proprio benessere, sulla ricerca del piacere personale e totalmente assorbiti dal proprio lavoro.
A tale proposito sarebbe utile una riflessione sulla dimensione educativa che molti maschi italiani hanno vissuto... Cresciuti con padri a loro volta assenti o troppo freddi, che hanno delegato il loro compito educativo; allevati da madri molto protettive che li hanno coccolati in modo «servile» e non li hanno aiutati a crescere accettando anche la frustrazione e la faticosa mediazione che il legame con l’altro richiede (compito, questo, che spetterebbe a quei padri che si sono estromessi o si sono lasciati estromettere).
Il tuo stare in questo deserto relazionale, sentendoti stanca e sola nella complessa gestione educativa e organizzativa dei figli, nei compiti domestici, nelle interazioni con quel variegato mondo di agenzie che entrano in relazione con la famiglia, è faticoso e doloroso. Un dolore sordo, che ti stringe il cuore mentre vedi lui preso solo dalla dieta e dallo sport. Comprendi che non riesce a calarsi nell’intimità del tuo sentire e ti fa percepire sbagliata, una moglie che rompe le scatole a un marito che vorrebbe solo essere lasciato in pace (in fondo lui lavora e porta a casa i soldi!).
Cara Annalisa, si percepiscono bene nella tua lettera le due anime che si combattono in te. La prima nasce da questa sofferenza legata a un’aspettativa infranta, quella di poter vivere un matrimonio soddisfacente, dove l’altro s’interessa al tuo vissuto, coopera nelle fatiche, costruisce comunione nel legame, condivide un progetto di vita. Questa distanza tra la realtà e quanto sognavi crea una lacerazione che sanguina copiosamente. Una parte di te vorrebbe smettere di soffrire, vorrebbe far finire questa continua umiliazione, la trova insensata, inutile, ingiusta. Un’altra parte di te, invece, guarda all’Amore del Padre rivelatosi nel Figlio, un amore scandaloso e stolto, un amore apparentemente dato senza guadagno (anche se, in realtà, il guadagno c’è). Senti che quell’amore oblativo è prima di tutto per te, intuisci che la possibilità di amare con questo Amore potrebbe essere la tua strada. Percepisci che è desiderabile vivere in questo flusso di amore ricevuto per essere donato, c’è profumo di libertà, la libertà da te stessa, la libertà dalla reciprocità.
Ma noi semplici creature non siamo capaci di amare così, la nostra struttura psichica è ferita, limitata e bisognosa. Cara Annalisa, tu puoi amare tuo marito senza condizioni solo se ti spogli di te stessa per farti abitare da Cristo, in un percorso che ti permetta di far tue le parole di san Paolo: «Non sono più io che vivo: è Cristo che vive in me».
Questo ovviamente non rende buoni i comportamenti e il disinteresse di tuo marito per te e i vostri figli, per cui anche a lui è richiesta la capacità di mettersi in discussione, un cambiamento di prospettiva. Allo stesso tempo, non credo sarà possibile eliminare una sensazione di ingiustizia e di sofferenza, ma potrai comunque «abitare pacificamente» la tribolazione.
Cara Annalisa, il tuo matrimonio vale indipendentemente da che cosa fa o non fa tuo marito, perché resta abitato dal Signore e continua a rimanere la tua e vostra strada per realizzarvi in un amore fedele e gratuito.
Ovviamente, Annalisa, se è possibile, vi invitiamo a farvi accompagnare, in coppia o individualmente, da una guida che vi permetta di scardinare i presupposti che rendono insoddisfacente la vostra relazione e darvi un’occasione di cammino: anche a san Paolo è servito un Barnaba per introdursi nel cammino di conversione.
Un abbraccio, con affetto.
Edoardo e Chiara
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oppure le vostre lettere a:Edoardo e Chiara, Messaggero di sant’Antonio, via Orto Botanico 11, 35123 Padova.