Migranti e rifugiati in cerca di pace
È esigente il messaggio che papa Francesco ha scelto per la Giornata della pace 2018. Fa da copertina all’intero anno: «Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace». Un messaggio in cui ognuno rilegge un pezzo del proprio passato. Il mio mi riporta a nonno Bepi, così come lo raccontava mia madre Albina. Era partito per il Nord America nel 1905. Per dieci anni aveva lavorato nelle miniere di carbone. E quando finalmente aveva messo da parte un gruzzoletto, eccolo ritornare proprio mentre scoppiava la prima guerra mondiale, nell’estate del 1914. Fu quindi reclutato nell’esercito austriaco, essendo allora il Trentino ancora parte del Tirolo. Un sogno di vita spezzato. Solo alla fine della guerra riuscì a sposare la sua amata Maria, dalla quale ebbe i doni più luminosi della sua vita: Albina, Bice e Ilda. Volti e nomi a me cari, tutti segnati dal ricordo dell’emigrazione che rende la nostra storia familiare ancora più preziosa.
La città aperta
La Bibbia valorizza la memoria delle migrazioni: «Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d’Egitto!» (Dt 10,18-19). L’esser stati stranieri cambia il nostro sguardo, lo affina, al punto di farci rendere conto, afferma papa Francesco, «che facciamo parte di una sola famiglia, migranti e popolazioni locali che li accolgono, e tutti hanno lo stesso diritto a usufruire dei beni della Terra, la cui destinazione è universale, come insegna la dottrina sociale della Chiesa». Nel messaggio il Papa indica Gerusalemme come simbolo della città aperta. Duole considerare che solo oggi, dopo secoli di convivenza, c’è chi la vuole rendere una città «privata». La città aperta ha spazio per tutti. Ha il volto del benessere che avvolge ogni luogo toccato dalla solidarietà. È prospera, capace di creare una nuova identità sociale e politica, senza per questo dover cancellare l’identità di ogni popolo. Anzi, tutti accolti. Tutti valorizzati. Tutti nuovi! (cfr EG 210). Un esempio è la cittadina di Riace (RC), in Calabria. Da paese in declino è divenuto un borgo rivitalizzato, con una scuola e un asilo ricco di figli. Ciò perché venti anni fa ha saputo accogliere e integrare i curdi dei primi sbarchi. Ricordo ancora quando gli accolti sfornarono il primo pane. Il «loro» pane, il pane curdo. Che divenne per tutti e di tutti. La gente calabrese intuì che quel popolo non era venuto solo per ricevere, ma anche per dare. E il paese crebbe.
Quattro verbi per ricominciare
Per questo sono preziosissimi i quattro verbi che il Papa ci pone in agenda nel suo messaggio. Una utile guida anche per le prossime elezioni, visto che la campagna elettorale ruota intorno al tema dei migranti. Accogliere: cioè aprire il cuore e le città, con corridoi umanitari innovativi e sicuri. Certo, con quella saggia armonia tra il rispetto della sicurezza nazionale e la tutela dei diritti fondamentali. Non più migranti ammassati in alberghi dal facile sapore speculativo, ma in numero ristretto e ben distribuiti nei nostri piccoli paesi. Proteggere: perché «il Signore protegge lo straniero, egli sostiene l’orfano e la vedova» (Sal 145). La loro dignità protetta diventerà difesa anche della dignità dei nostri giovani nei luoghi di lavoro. In una catena ininterrotta di solidarietà, sociale e giuridica. Promuovere: è il compito affidato alla scuola e all’università. In questi luoghi di formazione si può insegnare la storia con occhi nuovi, far capire che in passato chi ha accolto è cresciuto. Che un’economia integrata regge, come una città difesa da solide mura antiche. Integrare: riconoscere finalmente lo ius soli. Non è una concessione, è un diritto nativo, individuato già nel 1963 dalla Pacem in terris di papa Giovanni XXIII.
Mentre scrivo queste note, osservo ancora una volta la foto di nonno Bepi, dai lunghi baffi. La sua storia, la mia storia, la nostra storia.