Mille modi di morire
Un padre psichiatra in pensione, Richard «Dick» Johnson, con iniziali amnesie da demenza senile. Una madre morta da pochi anni a causa della medesima malattia. Una figlia documentarista, con figli, Kirsten, che ama i propri genitori e vorrebbe rimetterli insieme e ringraziarli, con l’umiltà divertita degli adolescenti. Insomma, un gruppo sociale frastornato da un lutto, ma ancora creativo intellettualmente, vivo emotivamente e caldo negli affetti, appassionato della vita e impegnato nella lotta contro il male. Una lotta non solo clinica, tecnica, organizzativa, ma anche culturale, ideologica, morale. Il dolore verrà e una triste separazione si ripeterà, ma, nonostante e attraverso la sofferenza, questa famiglia ingaggia una resistenza testarda e sincera, un gioioso inno di lode al presente, che niente e nessuno potrà stracciare, se è stato vissuto e donato responsabilmente.
La tattica adottata è quella dell’arte. La figlia chiede al padre il consenso non solo di filmarlo adesso, che è ancora giocoso e attivo, ma di usarlo come attore di sequenze fiction, in cui si rappresentano modi imprevisti e buffi di morire (cadere per le scale, dissanguarsi per un taglio). «Per quanto stia cercando in tutti i modi di ucciderti – dice la figlia al padre –, non sto cercando di liberarmi di te». Il padre accetta e, con l’aiuto di controfigure, effetti speciali e movimenti di macchina da presa, il cinema si mette al lavoro. Si ricrea la vita, si disegnano storie liberanti, si sogna a occhi aperti un mondo migliore, dove la malattia non paralizzi la mente e offra ai futuri spettatori (figli e nipoti compresi) la memoria di un aldiquà carico di doni. Andare al cinema è sacramento laico di condivisione del dolore, è celebrazione che spezza l’estraneità, è grazia di cose mai viste, è pratica del ricordo. La mamma della regista, che conosciamo dagli spezzoni di video, è ancora lì, con amici e parenti, voce di intimo consiglio che l’opera artistica riplasma, in un presente incontaminato. La figlia rimpiange la madre e si rammarica di non averla abbracciata abbastanza.
Teologia sullo schermo
Ci sono ovviamente aspetti tragici nella pellicola Dick Johnson è morto (USA 2020), neri, commoventi, risentiti. Ma sono miscelati con toni drammatici, comici, autoironici. Il backstage è rappresentato in diretta, con i cameraman, gli stuntman, i truccatori, gli aiuti registi. Ci vuole lealtà per parlare di cose tragicamente delicate. C’è nel film il documentario familiare, ma anche l’operetta, il meta-cinema (il cinema sul cinema), il surreale, la gag esilarante come i deformi piedi di Dick, che sembrano usciti da un disegno a fumetti.
La narrazione ha compiti eterogenei: carezza, addolcisce, prepara il distacco, anticipa la rinascita, aiuta la coesione del gruppo, realizza una specie di terapia. Il paffuto, goloso, simpatico, protagonista, che adora i dolci caramellati (fudge) al cioccolato e che si è confrontato con la follia dei suoi pazienti per tutta la sua vita professionale, conosce il senso del limite. La figlia gli dedica un ritratto, invitandolo a recitare molte parti e ruoli sceneggiati apposta per lui. E così ne moltiplica la vita (come fa sempre il romanzo) per mille vite, volti, situazioni. Il cinema non sopporta la fine, la annuncia («The End») ma la trascende. Il cinema la rappresenta (sin dal titolo originale: Dick Johnson is dead), ma la irride e combatte proprio mentre la mette in scena. Questa è l’unica cura che può offrire un racconto: farti osservare e vivere una dolorosa separazione e convincerti che, se la guardi su uno schermo, tu ci sei ancora, seduto in poltrona a piangere o a ridacchiare assieme a quei temerari, che credono nelle parabole e le costruiscono dando vita e movimento alla fotografia. Teologia del cinema, dopotutto.
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