La scelta di una madre
Autumn («autunno») è una bella studentessa di 17 anni, appassionata di musica pop e commessa al supermercato. È educatissima, un po’ malinconica, fredda, trattenuta, ma ha il coraggio di gettare un bicchiere d’acqua sul volto di un volgare ragazzo che la irride. Vive in una cittadina rurale della Pennsylvania con la madre (che ha un nuovo grossolano compagno) e due sorelline bisognose di attenzione. Un giorno avverte nausee e senso di debolezza. Si rivolge a un consultorio che le conferma uno stato di gravidanza: feto sano di dieci settimane. Tornata a casa, in cui vive relazioni tese e superficiali, Autumn mantiene il silenzio, mentre riflette sulla possibilità di interrompere la gravidanza indesiderata. Ma dove, come, quando, con l’assistenza di chi? E poi, è questa la soluzione? «Ancora non so cosa voglio fare» ammette la giovane. Colpisce il mutismo di Autumn, il suo congelamento emotivo davanti alla notizia, gli occhi curiosi e spaventati, la fatica di affrontare un dilemma morale e gestirne le decisioni finali. Come tornare a sentirsi viva? Come evitare la dissociazione mentale e vivere come propri i dolori e le speranze che non si possono delegare né rimuovere?
Questa giovane donna, protagonista del film Mai raramente a volte sempre (USA 2020), è affettivamente isolata, con l’eccezione della cugina Skylar, che l’accompagnerà con convinzione e solidarietà (ma con qualche superficialità) nello scomodo, penoso viaggio a New York, in cerca di una clinica abortiva, che sia almeno riservata, anonima e igienicamente affidabile (in Pennsylvania occorre il consenso dei genitori all’aborto). È un interminabile itinerario di tre giorni e due notti, scandito da treni, autobus, metropolitane, sale giochi, scale troppo alte, trolley pesanti, pasti frettolosi, soldi insufficienti, fraintendimenti sui tempi del trattamento, locali scomodi, registrazioni continue, pareti piastrellate malamente, camminate infinite, notti all’addiaccio, incontri rischiosi con uomini sconosciuti, continui controlli ai metal detector.
Lacrime e incertezza
Una psicologa premurosa cerca di ricostruire l’anamnesi personale attraverso le domande chiuse, che danno il titolo al film: «Ha subito violenze sessuali? Ha omesso l’uso di preservativi? È stata l’insistenza del partner? Quando è accaduto? Mai, raramente, a volte, sempre?». Una debole alleanza femminile con le operatrici socio-sanitarie cerca di attutire il freddo, impersonale ingresso nell’istituzione clinica. Autumn apprezza questi flebili segni di prossimità, riesce a fare due lacrime sincere e a verbalizzare qualche vissuto. Ma basterà? Tante maternità non volute sono gravidanze non pensate (come hanno giustamente scritto certe studiose di psicologia femminile), sono scacchi mentali, in cui l’evento imprevisto è «penetrato» dall’esterno come un oggetto alieno (anche se a volte inconsapevolmente atteso), un incubo intollerabile che desertifica la vitalità affettiva, strappa le parole di bocca, chiude la condivisione, induce a passare all’azione, a darsi pugni sul ventre o a chiedere solo alla tecnica di far tornare le cose come prima. «Non mi sento pronta a essere madre, non riesco a pensarmi madre» confessa Autumn.
La regista del film Mai raramente a volte sempre, Eliza Hittman, inquadra questo imbarazzante disagio in un contesto etico di penoso individualismo, maschilismo squallido, faziosità ideologica, indifferenza sociale. Un feto non voluto può venire successivamente accolto con amore. Altre volte è invece sofferto come un insopportabile, angoscioso parassita dell’utero e dei pensieri. A quali condizioni una ragazza sensibile, oblativa e intelligente potrebbe coltivare un grembo psichico, in cui il nascituro sia immaginato, riconosciuto, atteso, amato?
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