Mio figlio è morto e la vita non ha più senso
«Difficile prendere in mano carta e penna (o, per meglio dire, schermo e tastiera) e decidere di scriverle. Ma ne ho provate talmente tante che a questo punto provo anche questa, sperando che almeno da lei possa giungermi uno stimolo, un pensiero, una luce. Una luce, sì, perché brancolo nel buio più totale e non so in che direzione muovere i miei passi.
Quattro anni fa mio figlio, il mio unico figlio, si è ammalato e nel giro di poco tempo se n’è andato. Aveva 23 anni e la vita davanti. Aveva desideri, speranze, progetti. Aveva il sogno di un futuro pieno. Tutto è sfumato in un attimo. La vita, fino a un secondo prima ricca di promesse, gli ha girato improvvisamente le spalle. E a me con lui. Il dolore atroce dei primi mesi con il tempo si è un po’ attenuato, ma è sopraggiunta una sorta di torpore esistenziale dal quale non so scuotermi. Ho i supporti psicologici e medici del caso, non è questione di depressione. È come se la mia anima si fosse spenta. Se i colori della vita si fossero di colpo trasformati in un anonimo bianco e nero che toglie sapore e gioia a ogni cosa. Non trovo un senso, non trovo un significato. Non so trovare il perché di tutto questo. Dio è buono? Come può essere buono un Dio che permette la malattia e il dolore? La sofferenza degli innocenti, la morte, la disperazione. No, non c’è senso. La vita è un caso, una sorte casuale. Può andare bene o male, ma non c’è nessuna pietà per noi esseri umani. Non c’è stata pietà per mio figlio, che voleva vivere, e nemmeno per me, che ho perso tutto insieme a lui».
Teresa - Perugia.
Cara Teresa, innanzitutto grazie per aver preso carta e penna o, come dice lei, schermo e tastiera e avermi inviato questa lettera. Non deve essere stato facile. Così come non è facile ciò che mi chiede. Provo a tracciare un sentiero di luce che, ovviamente, non è mio, ma mi viene suggerito dalla fede, dalla vita e dall’esperienza di tanti credenti che si sono trovati a vivere situazioni che si avvicinano per molti versi alla sua storia così drammatica.
Devo chiarire subito: non sono capace di dare un senso al suo dolore. Non posso dirle: «Le è successo questo perché…». Sono come lei un essere umano in cammino che si confronta ogni giorno con il dolore, piccolo o grande, proprio o dei tanti che mi aprono il loro cuore. Ogni volta è un enigma quello che mi trovo dinanzi. Un grande punto di domanda che vorrei sapere e potere cancellare, sostituendolo con risposte e certezze. Ma così non è, per nessuno.
Il dolore, soprattutto quello che noi chiamiamo «innocente», non trova spiegazione alcuna. In qualche caso può essere frutto di scelte umane sbagliate (pensiamo, per esempio, alle migliaia di bambini che perdono la vita per le guerre, le ingiustizie, la povertà), ma in molte occasioni ci troviamo a fare i conti con situazioni drammatiche inspiegabili (come la malattia di suo figlio).
Non sto a consigliarle aiuti e supporti che mi pare lei già abbia intelligentemente allertato. In questi casi anche i gruppi di auto aiuto sul lutto possono dare un sostegno. Ma di certo nulla risolve alla radice il problema. Con il dolore bisogna venire a patti.
E, allora, quale «patto» può aiutarla in questo momento così duro, in cui il dolore, come lei scrive, non è più in fase acuta ma ha comunque steso un pesante velo di profonda tristezza su tutta la sua esistenza? Ipotizzo una direzione di risposta: l’accettazione e l’abbandono. L’accettazione profonda di non capire il perché ciò sia accaduto e l’abbandono nelle mani del Signore, certa che, un giorno, quanto ora appare inspiegabile e ingiusto riuscirà a trovare un senso.
Di certo Dio non «manda» il dolore. Ma noi possiamo, con il suo aiuto, non lasciarci annientare da esso e cercare di renderlo, con il tempo, occasione di bene. Occasione per ridare corpo a quell’amore che ci legava alla persona cara in vita, a quell’amore che le abbiamo donato accompagnandola nel suo calvario. Quell’amore che ora, senza di lei, pare aver perso ogni ragione d’essere. Cerco di spiegarmi meglio con un esempio. Quante volte genitori che hanno perso un figlio hanno deciso, proprio in nome di quel figlio, di dare inizio a un’opera di volontariato, di aiutare quanti stanno soffrendo come hanno sofferto loro o il loro figlio? Certo, questo non può avvenire subito, c’è il tempo del lutto che va vissuto e rispettato. C’è il tempo delle lacrime e della disperazione, che va accolto, pena una fuga che ci riporta al punto di partenza. Ma quando il dolore si fa meno acuto (e questo avviene sempre nella vita, anche quando pare impossibile…) può essere d’aiuto concentrarsi sul bisogno e sulla sofferenza di qualcun altro. Non si tratta di una pratica consolatoria spicciola o di un escamotage per non pensare alla propria sofferenza. No, può essere un modo che aiuta a tirare fuori l’amore che lei ha ancora dentro di sé. Il dolore immenso per quel figlio che fisicamente non è più con lei, potrà – se lei lo vorrà e, ripeto, rispettando i tempi del lutto – aiutarla a dare amore a chi ne ha bisogno. Perché solo l’amore vince la morte. Solo l’amore dà senso, qui e ora. Solo l’amore può consolare e colmare il vuoto. Solo l’amore può darci il coraggio di un’attesa fruttuosa del tempo delle risposte, quello in cui capiremo e in cui tutto ci verrà rivelato.
Cara Teresa, le chiedo scusa per la mia inadeguatezza. Ma non me la sento di darle risposte certe che nessun essere umano può avere, nemmeno un povero frate come me. Posso solo indicarle la strada della speranza e dell’amore (che poi è l’unica che conduce all’incontro profondo con il Padre, che per amore nostro ci ha donato il suo unico figlio) e accompagnarla in questo difficile cammino con la mia preghiera. Mi siedo simbolicamente accanto a lei, piango con lei, guardo con lei quel vuoto pauroso che ora le pare la vita, nella convinzione profonda che il Signore saprà indicarle una strada feconda di futuro, nella quale, attraverso di lei, la morte di suo figlio porterà frutto, come il chicco di grano della parabola evangelica (cfr. Gv 12,24). La abbraccio forte.
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