Muoversi per vivere
Dopo i lunghi mesi di confinamento le gambe hanno voglia di muoversi, gli occhi, stanchi di fissare i muri di casa, hanno bisogno di gustare la bellezza di una natura che in questo periodo dell’anno è particolarmente rigogliosa. Ma la «sindrome della capanna» che si è abbattuta su tutti noi, genera anche in me un certo timore all’idea di riaffrontare il mondo «esterno». Decido così di optare per una passeggiata in una zona montuosa poco battuta, come le Prealpi friulane.
Vista la scarsa conoscenza dei luoghi, mi affido a due esperti che, sapendo del mio lavoro presso il «Messaggero di sant’Antonio», mi fanno una sorpresa: mi condurranno nella Valle di San Antonio, sulla direttrice tra Maniago (PN) e il monte Jouf (1.224 metri), una passeggiata poco impegnativa, adatta a chi riprende a camminare dopo un lungo periodo di sosta forzata. Superata Maniago, ci dirigiamo così verso Montereale Valcellina, lungo la statale 251, e, a un chilometro circa dalle ultime case, incontriamo l’imboccatura del sentiero Cai n. 967.
Ci incamminiamo e, in un’oretta, a passo lento e senza incontrare anima viva, raggiungiamo un piccolo oratorio (restaurato nel 1989), edificato a metà strada tra il borgo di Maniagolibero e la Forcella Crous (Croce), dedicato, neanche a dirlo, ad Antonio (qualcuno dice si tratti di sant’Antonio abate, ma le immagini in chiesa sono decisamente quelle del nostro Antonio di Padova).
Un tempo la chiesetta era luogo di sosta e di preghiera per i viandanti che, fino almeno al 1906, percorrevano questa importante via di collegamento tra la Valcellina e la pianura e che hanno lasciato traccia di sé nei tratti lastricati e nei solchi incisi sulle rocce dalle pesanti slitte cariche di legna. Raggiunta la Forcella Crous, con un percorso ad anello rientriamo alla base ed è lungo la strada del ritorno che noto un segnale diverso da quelli bianco-rossi del Cai, che fino ad allora ci hanno accompagnati. Si tratta di un cippo a strisce ocra-blu e, incuriosita, ne chiedo conto ai miei compagni di cammino. «Quello? È un segnale per chi segue il percorso metabolico» mi rispondono.
Decido, una volta a casa, di saperne di più ed è così che mi imbatto nella figura del dottor Ciro Antonio Francescutto, una cinquantina d’anni, diabetologo nonché medico dello sport, impegnato tra l’ospedale di Maniago, quello di Pordenone, e l’ambulatorio di Casarsa della Delizia. «Il progetto nasce dalla mia esperienza di diabetologo – mi spiega al telefono –, perché nella cura di alcune malattie come il diabete, l’obesità, l’ipercolesterolemia o la pressione alta, ci sono due “farmaci risolutori” che in genere vengono poco utilizzati: il movimento e l’alimentazione. Nell’approccio ambulatoriale è più facile ricorrere subito al farmaco tradizionale, che però serve solo a tamponare la situazione ed è inoltre molto costoso per il Sistema sanitario nazionale. Agire sull’alimentazione e sul movimento, invece, oltre a essere alla portata di tutti e a costare poco, può risolvere il problema alla radice».
Che il movimento faccia bene alla salute è cosa risaputa, perché allora è così difficile metterlo in pratica? «Perché non c’è nulla di più complicato che cambiare le abitudini di vita – insiste Francescutto – e poi perché spesso non riusciamo a trasformare il movimento da dovere in piacere. È nata da qui l’idea dei percorsi metabolici che, in sostanza, sono dei tracciati di varie lunghezze (da 1 a 50 chilometri) e difficoltà (in pianura, collina o montagna), incrementabili nel tempo, e che, partendo dai centri abitati, sono alla portata di chiunque. La particolarità di questi tracciati sta tutta nella descrizione che li accompagna, perché al di là dell’indicazione geografica, con tanto di cartina e altimetria, vengono fornite altre informazioni come le calorie consumate.
Ma non basta. A ogni percorso è anche associata una serie di informazioni riguardanti un alimento preso a simbolo, di cui sono descritti l’equivalente consumo calorico e la composizione macroalimentare, in base al tipo di locomozione, in modo da unire il tema della promozione del movimento a quello dell’educazione alimentare di base: così c’è il percorso della mela ma anche quello del pane, della pasta o della carne, e così via. In tal modo una persona non solo sa la quantità di calorie consumate, ma anche, per esempio, quanta pasta “brucia” in quel determinato percorso sia che decida di camminare che di correre o di percorrerlo in bici.
Infine, ci sono altri due indicatori che danno consapevolezza dell’impatto del movimento sul nostro quotidiano, personale o collettivo: il primo, le ore di vita guadagnate (per esempio, percorrendo 10 chilometri in salita si guadagnano una media di tre ore di vita), il secondo, il risparmio per il Sistema sanitario, cioè la somma esatta che, grazie a quel percorso effettuato in quella modalità, il Sistema sanitario risparmia (e in questo caso siamo nell’ordine di circa un euro a chilometro). Sono strategie comunicative che incentivano non tanto al cambiamento in sé, ma alla sua durata nel tempo, che è l’aspetto più difficile da ottenere».
Per raggiungere questi obiettivi, Francescutto ha creato un sito web (www.curaticonstile.it) che, oltre a spiegare nei dettagli la filosofia del suo approccio alla cura, raccoglie i circa settecento itinerari finora tracciati, che si trovano per lo più in Friuli-Venezia Giulia. «Mi dedico a questa attività nei ritagli di tempo – spiega il medico –. Ma ho lanciato e lancio un appello a chiunque voglia contribuire: è sufficiente che mi mandi la cartina di un percorso con la sua descrizione e qualche foto; il resto è compito mio. Sarebbe davvero importante se potessimo contare su una mappatura di percorsi su tutto il territorio nazionale».
Più vita in gioco
Oltre al sito, c’è l’attività pubblica di divulgazione effettuata dal dottor Francescutto, perché nulla incentiva al cambiamento come l’incontro personale. «Ma ci sono anche altre strategie che possono aiutare, come lo svolgere le attività insieme ad altre persone. – sottolinea il diabetologo –. Io ho avviato molti gruppi di corsa e di cammino e le garantisco che funzionano. E poi non bisogna dimenticare l’aspetto ludico. Ogni anno lanciamo sui nostri social una sfida: nel 2019, per esempio, era quella di raggiungere la cima del monte Jouf e di postare poi un selfie scattato in vetta. Siamo riusciti, con questo stratagemma, a portare circa 1.600 persone in cima allo Jouf in un anno».
Cambiare le abitudini di un’intera esistenza, magari a 60 anni, non è facile. Ma ne va della qualità e della quantità di vita. «Abbiamo calcolato – conclude Francescutto – che, nella sola provincia di Pordenone, una regolare attività fisica (che significa da un minimo di mezz’ora ad almeno un’ora al giorno per cinque giorni alla settimana) abbatterebbe del 16 per cento il livello di mortalità per neoplasie alla mammella e al colon, vale a dire che si risparmierebbe ogni anno a circa 80 persone una diagnosi così grave. E questo solo con il movimento. Mi dica lei: non ne vale la pena?».
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!