Nati viaggiatori

L’emergenza sanitaria e il conflitto in Ucraina mettono in crisi non solo l’industria del turismo ma anche il senso del viaggio e del viaggiare. Non è una questione solo economica, ma anche esistenziale.
16 Maggio 2022 | di

Pensare a viaggi e vacanze dalla prospettiva di una guerra in Europa che non ci saremmo mai aspettati e di una pandemia che stenta a lasciarci è difficile. Il mondo s’è capovolto in pochi mesi e l’incertezza si tinge delle atmosfere surreali dei reparti di terapia intensiva e delle scene di guerra, mentre il caro energia già si abbatte sul portafoglio degli italiani. Nonostante ciò, lo scorso aprile, una ventata di ottimismo ha investito l’ultima edizione del Bit, la Borsa italiana del turismo, all’annuncio delle stime di Demoskopika: il 2022 registrerà un più 43 per cento di arrivi dall’estero e un più 35 per cento di presenze tra italiani e stranieri. Una mezza vittoria, perché il 2021 è stato l’anno nero del turismo in Italia e i numeri del 2019 sono ancora una chimera. L’incertezza, però, pesa: del 31 per cento di italiani che non andranno in vacanza, il 10 per cento teme gli esiti della guerra, un altro 8 per cento ha paura del covid, ma la maggioranza, il 13 per cento, denuncia un peggioramento delle condizioni economiche.

Lontani i tempi in cui l’overturism, ovvero quel turismo consumista che usura i territori sostituendo il panificio sotto casa con l’ennesimo negozietto di souvenir, la faceva da padrone. Per gran parte dell’anno, le decine di pizzerie al taglio e di B&B che bordano le strade dei centri storici, rimangono vuoti, nello sgomento di città d’arte bellissime e semideserte, orfane di veri abitanti, a dimostrazione che quel modello di turismo era sbagliato. Un’occasione di cambiamento epocale. Sapremo cogliere la sfida, impegnandoci a capire finalmente la vocazione dei nostri territori? Saremo in grado di far evolvere in modo più sostenibile e umano il senso del viaggio e del viaggiare?

Pregiudizi di viaggio

Prima di addentrarci nelle sfide del cambiamento, conviene sgombrare il campo da alcuni pregiudizi. Innanzitutto il viaggio non è un’azione superflua o accessoria: è una caratteristica umana. Di più, è la metafora che meglio descrive la nostra vita: «Mi piace pensare – afferma Andrea Bocconi, psicoterapeuta e scrittore – che la prima viaggiatrice della storia sia stata Lucy, la nostra bisnonna di 3,2 milioni di anni fa, la quale, un po’ per necessità e un po’ per curiosità, si spostava in cerca di bacche. Tutt’oggi il comportamento esplorativo fa distinguere un bambino sano da uno con problemi. Noi siamo i nostri viaggi, piccoli e grandi, riconosciuti o meno».

L’altro pregiudizio è che il viaggio sia sempre stato un motivo di piacere e di svago: «La prima forma di turismo – chiarisce Duccio Canestrini, antropologo, autore del recente Trofei di Viaggio (Bollati Boringhieri) – è stato il pellegrinaggio che, in epoca medievale, era inteso come una forma di espiazione dei peccati. Andare a Santiago di Compostela, a Gerusalemme o a Roma esponeva a grandi pericoli: potevi incontrare belve e briganti o essere derubato dall’oste. Si viaggiava nell’assoluta incertezza». La prima forma di turismo che si avvicina alla modernità è il viaggio come conoscenza, tradotto dal Grand Tour: «Era un viaggio d’élite attraverso le capitali europee e italiane, destinato ai rampolli della società bene, a partire dal XVII secolo, per imparare come funzionava il mondo».

Per arrivare a forme più democratiche di viaggio bisognerà aspettare Thomas Cook, pastore protestante e imprenditore inglese, fondatore della prima agenzia di viaggio, intorno al 1840. È lui a indirizzare i primi turisti sulle rotte riservate prima all’aristocrazia e all’alta borghesia, provocando uno scandalo in chi voleva mantenere il viaggio un privilegio di pochi: «È da qui che nasce l’ultimo stereotipo: che i grandi viaggiatori non sono turisti, mentre i turisti non sono viaggiatori, con l’intento di mettere una distanza tra la raffinata cultura dei pochi e la rozzezza dei molti» commenta Canestrini.

I ricordi che plasmano

Appurato che siamo tutti sia viaggiatori che turisti, il passo successivo è capire qual è la molla che ci spinge al viaggio. «Le molle sono almeno due – chiarisce lo psicoterapeuta Bocconi, autore del libro Io, Altrove (Ediciclo) –. Da una parte la necessità di uscire fuori da noi, nella direzione dello sconosciuto, dell’incontro, del paesaggio, della città. Dall’altra, il bisogno di un viaggio dentro di noi, per mettere alla prova la nostra identità. Quando siamo fuori dal contesto abituale, diventiamo un corpo senza storia in uno spazio. È un partire da zero, un gettare le maschere, un uscire da ruoli che ci imprigionano per cercare qualcosa di più profondo». I nostri sensi sono al massimo, notiamo ogni dettaglio, impariamo il nuovo.

Non è un caso se un quinto dei nostri ricordi è legato al viaggio, continua Bocconi: «Eppure noi non viaggiamo per un quinto della nostra vita. Segno che ciò che alimenta i ricordi è l’insolito. Non ricordiamo quello che abbiamo mangiato tre giorni prima, ma possiamo narrare ogni dettaglio di una cena, per esempio, a Marrakesh». Ed ecco che il viaggio incontra la vita e a essa spesso si sovrappone. A dimostrarlo una recente ricerca del dipartimento di Psicologia dell’Università di Zurigo, condotta su un campione di mille persone tra i 18 e i 55 anni, provenienti da diversi Paesi occidentali. Secondo tale ricerca, sono proprio i ricordi di viaggio a plasmare la personalità degli individui. Per esempio, il 40,3 per cento degli inglesi aveva già fatto un viaggio che gli aveva cambiato la vita, mentre il 46,5 per cento non cederebbe i ricordi di viaggio per nessun motivo, a riprova di quanto essi siano fondamentali per la propria visione del mondo.

Questa dimensione personale e spirituale del viaggio è stata a lungo trascurata dagli operatori del turismo a tutti i livelli, diventando a volte solo una leva superficiale e modaiola di marketing, più che un’esigenza del viaggiatore. Ora, in tempi difficili che ci hanno costretto a riconsiderare la vita dall’immobilità, dall’attesa, dalla precarietà, l’esigenza di viaggio, inteso come rinascita, ricominciamento, cambiamento, ritorna prepotente. Non è un caso se molte persone proprio nel corso della pandemia hanno deciso di lasciare lavoro e routine per cercare i luoghi dell’anima, in cui farsi una vita più simile alle proprie aspirazioni. «La perdita di sicurezza è una grande molla di cambiamento; se vivi nell’incerto, tanto vale giocarsela – spiega Bocconi –. Per esempio, i nostri giovani che convivono con la precarietà del lavoro sono molto più disposti a lasciarsi andare e a cercare ciò che piace. L’avere delle certezze, al contrario, tende a immobilizzare, anche se la situazione in cui si vive è asfissiante. Per questo, ogni viaggio, facendoci affacciare sull’insolito, sull’altrove, è una possibilità di cambiamento».

La vita è viaggio

La consapevolezza che il senso del viaggio sia il rovescio della medaglia del senso che diamo alla vita inizia a penetrare anche tra gli addetti ai lavori, quelli che il turismo lo programmano. «Il turista non è un marziano, ma è una persona che vive in un contesto sociale e che cerca nel viaggio le passioni, le esperienze, i valori in cui crede. Finora, invece, è stato spesso trattato come una persona da accogliere, “impacchettare” e rimandare a casa, nella pretesa di sapere ciò di cui ha bisogno e nell’incapacità di cambiare prospettiva». A parlare è Luca Caputo, destination manager, ovvero un tipo di professionista che lavora con tutti i soggetti coinvolti nel turismo di un territorio e che crea progetti e sistemi di servizi per valorizzare una data destinazione turistica. Una figura molto utilizzata all’estero e, manco a dirlo, semisconosciuta in Italia, nonostante la presunta vocazione turistica della Penisola. «Mi spingo a dire – continua – che il turista cerca ciò che gli restituisce felicità. Un concetto che può sembrare utopico, ma che in realtà ha senso: se nella vita quotidiana non possiamo cambiare le condizioni, almeno nel viaggio vogliamo trovare ciò che cerchiamo, il luogo che ci permetta di essere noi stessi».

Quindi il centro del turismo non è tanto il luogo, ma ciò che quel luogo rappresenta per la persona. Un cambiamento copernicano, che era nell’aria da tempo, ma che la pandemia ha accelerato. A ribadirlo in modo inequivocabile è proprio il presidente di Demoskopika, Raffaele Rio, alla presentazione del rapporto sul turismo: «Il turismo come lo abbiamo conosciuto fino a qualche tempo fa è probabilmente, se non definitivamente, in letargo. Il sistema ha necessità di subire una profonda trasformazione in chiave di sostenibilità, per rispondere ai nuovi comportamenti di acquisto generati dall’emergenza pandemica». Il turista che torna a viaggiare, insomma, predilige il contatto con la natura, i luoghi più vicini e meno noti, ma nei quali si respira un rapporto più autentico con le persone, nel rispetto delle culture e dei territori.

Per un turismo capovolto

Imboccare la via della sostenibilità è importante, ma non risolutivo. Ne è convinto Caputo, che dopo anni di lavoro sui territori arriva a una conclusione spiazzante: «Finora abbiamo concepito il turismo come un settore dell’economia, da ora in poi il turismo dovrà coincidere sempre più con l’economia nel suo complesso e con la vita dei territori. Ciò significa che i territori devono essere attrattivi tutto l’anno e non solo per una stagione, perché hanno un insieme di risorse e vocazioni trasversali da offrire tanto al turista quanto all’imprenditore, quanto al semplice cittadino che abita quel luogo. I Paesi del Nord Europa l’hanno capito bene, hanno scelto le vocazioni più importanti dei loro territori e hanno creato una serie di proposte ad hoc, che coinvolgono sia i cittadini che gli operatori economici e turistici. Copenhaghen, per esempio, si è specializzata sul design e attrae turisti, curiosi e professionisti da tutto il mondo e per tutto l’anno, creando economia e cultura».

Un cambiamento richiesto anche dalle nuove tipologie di turismo post pandemico: «Oggi lo smart working permette forme di turismo inedite, stanziali e destagionalizzate, che mettono insieme lavoro e qualità della vita – spiega Caputo –. Esigenze che hanno bisogno di un territorio attrattivo tutto l’anno e di servizi ad hoc, come connessioni veloci e una politica immobiliare specifica». Ma di un contesto di accoglienza del tutto nuovo hanno bisogno anche singoli o famiglie che hanno adottato un animale in periodo pandemico, per smorzare il senso di isolamento e la mancanza di affetti. Una tendenza presente anche prima, ma che oggi diventa cogente: «In Italia già è faticoso trovare un albergo che ospiti un animale, se poi non è di piccola taglia la ricerca si complica. Difficile portarlo in spiaggia o in ristorante, quasi impossibile al museo. A fine soggiorno, i soldi richiesti per la “disinfestazione” trasformano l’essere che le persone considerano un membro della famiglia in un appestato».

Non basta quindi avere il territorio con il maggior numero di beni artistici e culturali al mondo o l’enogastronomia più varia e ricca del Pianeta, occorre una visione nuova sui territori e sulle persone: «Mantenere lo stesso punto di vista dopo una crisi tanto grave – conclude Caputo – significa condannarsi a rimanere un museo a cielo aperto, mentre il futuro ci sorpassa». Ogni vita in realtà è un viaggio e ogni viaggio è un pezzo insostituibile di esperienza che mette in gioco il viaggiatore e coinvolge una comunità. Una consapevolezza che è insieme una responsabilità e una scommessa.


Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»! 

Data di aggiornamento: 16 Maggio 2022
Lascia un commento che verrà pubblicato