Nella stanza delle meraviglie
Che cos’hanno in comune la cappa rossa di una confraternita e il registratore di cassa di un bar anni ’80? Qual è il fil rouge che lega una sella americana a un crocifisso e a una statuetta di Pinocchio? La soluzione a questo enigma richiede un viaggio a Castelbuono. È proprio nel Museo civico del borgo palermitano che fino al 30 luglio va in scena «La stanza delle meraviglie». Ma per capire bene di che cosa si tratta dobbiamo viaggiare indietro nel tempo fino al 1920, anno in cui gli allora abitanti del paese organizzarono una colletta e comprarono all’asta, per 23 mila lire, il Castello dei Ventimiglia, salvo poi trasformarlo in Museo civico. È uno dei più antichi esempi italiani di bene pubblico condiviso da una piccola comunità.
Cento anni dopo, i castelbuonesi non hanno dimenticato quel primato. Non a caso mettono a punto il progetto triennale «L’Asta del 1920», nell’intento di risvegliare nelle giovani e meno giovani generazioni il senso di appartenenza al territorio e alla comunità. E così facendo, tutelano un patrimonio collettivo fatto di tradizioni e ricordi. Dopo un anno di assemblee cittadine, incontri ed eventi collaterali, il progetto si concretizza anche in una mostra. La location è lo stesso castello acquistato un secolo prima. Nello specifico, tre stanze adiacenti alla cappella secentesca, rimaste a lungo inutilizzate. Appese ai muri o appoggiate sopra gli espositori non ci sono però opere d’arte. Niente quadri d’autore o sculture antiche. Solo oggetti di vita quotidiana, testimoni di una identità condivisa e per questo preziosa anche più dell’oro e dei diamanti.
«La sfida di questa mostra – racconta la curatrice Maria Rosa Sossai – era di “fare arte” senza però la presenza di artisti e capolavori». Un ossimoro nel nome del bene comune. «Proprio questo essere testimoni di comunità rende gli oggetti opere d’arte che agiscono come un collante tra le persone». Poco importa se si tratta di un ombrellino o di un pavone impagliato, di un santino o di un paio di scarponcini da donna col tacco a rocchetto. È il messaggio dietro l’oggetto che conta. Il messaggio che, sommato agli altri come in un puzzle, compone una storia. «Abbiamo chiesto agli abitanti di Castelbuono di prestarci un oggetto che a loro avviso rappresentasse la comunità. Hanno partecipato tutti: dalla casalinga al barbiere fino al libero professionista» continua Sossai. Risultato: oltre duecento pezzi – perlopiù risalenti agli inizi del ’900 – che raccontano, ognuno a modo proprio, ambiti diversi di una stessa realtà.
C’è il santino della Vergine e un mestolo di legno, un mandolino accanto alla teiera. E ancora: libri, scatole di latta, gioielli, borsette, monili, due piatti con lo stemma di una trattoria locale, foto, centrini, insegne, articoli di giornale e persino abitini da cerimonia infilzati al soffitto come tante bandiere colorate. A fronte di tale varietà, viene da chiedersi come si sia evitato l’«effetto accozzaglia». «Il rischio di creare una mostra-mercatino era alto – conferma Laura Barreca, direttrice del Museo civico di Castelbuono –. A fare la differenza è stato l’allestimento a cura dell’architetto Pietro Airoldi su ispirazione delle wunderkammer, le stanze dei mirabilia – gli oggetti più curiosi raccolti dai collezionisti tra il XVI e il XVIII secolo – antenate dei musei (da qui il titolo dell’esposizione siciliana)».
Arte e vita quotidiana
Quello delle wunderkammer non è l’unico richiamo all’arte nell’esposizione di Castelbuono. Nelle stanze del Museo civico aleggia l’ombra di Marcel Duchamp, il padre del ready made. Tra influssi surrealisti e rimandi al movimento Fluxus, le «opere» rendono omaggio anche agli assemblage di Joseph Cornell e alle installazioni di Daniel Buren. Quando l’arte si mette al servizio del bene comune è ancora più facile apprezzarla. Ne sanno qualcosa i molti visitatori che – nonostante le chiusure dovute alla pandemia – hanno già visitato la mostra al Castello dei Ventimiglia. «Molti castelbuonesi – spiega Maria Rosa Sossai – hanno riconosciuto gli oggetti esposti e hanno aggiunto dettagli preziosi durante le visite guidate». Come se quel museo fosse un po’ casa loro.
La mostra, però, ha richiamato anche tanti giovani che hanno sentito raccontare di quegli oggetti dai nonni e dai genitori. «A dispetto dell’età – continua Sossai –, il bisogno di conservare la memoria è fisiologico nelle piccole comunità». Parola di una curatrice d’arte che ha da poco stilato, assieme a Laura Barreca, Valentina Bruschi, Francesco La Cecla e Vincenzo Vignieri, il Manifesto dei musei dei piccoli borghi e dei territori. In pratica: un decalogo che – nato in piena emergenza covid – riassume un nuovo modello culturale dove il museo diventa dispositivo capace di attivare relazioni e azioni efficaci sul territorio.
«I piccoli borghi italiani incarnano quello che molti paesaggisti e architetti individuano oggi come luoghi simbolo di un futuro ecosostenibile, ovvero l’idea di un bene comune» precisa Laura Barreca sul sito www.museocivico.eu. Per questo, parafrasando il Manifesto, oggi più che mai risulta fondamentale «ripensare un modello museale più vicino alle persone, all’ambiente e centrato sulle comunità. (…) Il museo è il luogo dell’apprendimento consapevole (…), un centro di ricerca e un polo di sperimentazione di nuovi linguaggi (...)». Un luogo, insomma, da vivere e da far vivere. Insieme. In comunità.
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