Non chiamateci eroine

Storie di donne che, con la loro testimonianza, offrono lo spaccato di un Paese impegnato nella costruzione silenziosa, quotidiana, ostinata del bene comune.

È l’Italia migliore, quella che non ti aspetti e non si vede. Quella che il presidente della Repubblica Mattarella definisce degli «eroi civili». Tra loro anche tante donne, protagoniste di alcune delle storie di queste pagine. Con il loro impegno nella solidarietà, nel soccorso, in favore dell’inclusione sociale, nella cooperazione internazionale, nella tutela dei minori, nella promozione della cultura e della legalità, offrono, a tutti noi, uno sguardo differente, mai scontato, sul mondo.


«Non siamo eroine – precisano quasi all’unisono –. Facciamo semplicemente il nostro dovere». La loro cifra sta tutta qui, in un avverbio che non racconta di grandi imprese o gesti epici, bensì della passione civile ordinaria, quotidiana, di quel bene ostinato che non fa rumore eppure rende tutti persone migliori. Una somma di piccole azioni che, di questi tempi, ha un unico nome: coraggio.

Rosalba Rotondo

A Scampia doveva fermarsi giusto il tempo di un anno scolastico. «Non ti preoccupare – le dicevano -: finito l’incarico, fai subito domanda di trasferimento». Rosalba Rotondo, 62 anni, a Scampia ci sta invece da trentasei anni. Prima come insegnante di Lettere, poi come «preside di frontiera», alla guida di uno degli istituti comprensivi più grandi dell’hinterland partenopeo con oltre 1.200 studenti di cui 280 di etnia rom.

«Nessuno mi ha costretta – racconta –, né allora né, tanto meno, oggi. Ho scelto io di rimanere in un luogo difficile dove c’è tanta bellezza da tirar fuori. Il mio compito è quello di dare a ognuno dei miei ragazzi gli strumenti per riuscire, un giorno, a pensare liberamente così da realizzare i propri sogni. Quelli personali non quelli di altri». Non è un caso che il simbolo dell’istituto Alpi-Levi sia un cuore con le ali.

«L’educazione alla vita e ai valori essenziali dell’esistenza, l’istruzione, i progetti per il proseguimento degli studi superiori e per un lavoro – spiega –, sono sempre scelte di cuore, grosse sfide che, in un quartiere complesso come Scampia, si vincono sempre, almeno per quanto riguarda la scuola. Non so quante minacce ho finora subito. Molti di quei genitori che mi avevano chiesto di lasciar perdere l’educazione dei figli, a distanza di tempo sono venuti, invece, a ringraziarmi per averli tolti dalla strada e aver dato loro la “cassetta degli attrezzi” per credere in se stessi».

L’Alpi-Levi è la scuola storica del quartiere nato alla fine degli anni ’70. I ragazzi arrivano da varie zone: le Vele, i caseggiati popolari TA e TB, le case-scatolette dei Puffi (il famigerato Lotto P), la «Cianfa» di cavallo, così chiamata per la sua conformazione tipica, i ben noti «Sette palazzi» e il Lotto G, il Parco dei Postali, ma anche parchi organizzati come vere e proprie zone residenziali. Rotondo è nota per la sua determinazione nel difendere e rivendicare i diritti di cittadinanza dei giovani contro la devianza, la criminalità organizzata, la miseria. 
 

Tiziana Ronzio

Quando decise di reinstallare per l’ennesima volta i citofoni del palazzo, più di qualcuno le diede della pazza e della visionaria: «Fai pure! Tanto, da qui a un’ora, non solo non ne funzionerà neanche uno, ma te li ritroverai tutti staccati o bruciati». Tiziana Ronzio, 49 anni, è operatrice sanitaria all’Umberto I.

A Tor Bella Monaca arriva dal quartiere Centocelle. In graduatoria per un alloggio, le viene assegnato un appartamento in una delle quattro Torri dell’Ater di via Santa Rita. Il quartiere è un luogo abbandonato, senza identità, punto di incontro abituale di malviventi e spacciatori.

«Appena ci ho messo piede ho cominciato a chiedermi se potevo fare qualcosa per renderlo meno sporco e brutto, ma soprattutto meno anonimo – racconta –. All’ epoca mi capitò di prendermi cura di due famigliari malati. Non era un problema trovare qualcuno per un’ora di assistenza: quando però fornivo indirizzo e quartiere, mi rispondevano con un rifiuto». 

Così, come se l’intero quartiere fosse casa sua, Tiziana ha reso Tor Bella Monaca «casa di tutti». Insieme a due vicine, Anna Paba e Antonietta Tagliaferri, ha fondato l’associazione «TorpiùBella». «È successo tutto due anni fa, galeotto fu un black-out. Uscimmo dagli appartamenti rendendoci conto che, anche se eravamo vicine, non ci conoscevamo. Capimmo che dipendeva anche da noi rendere Tor Bella Monaca più bella.

Suor Gabriella Bottani

«La chiamerò Lina. In grembo teneva un figlio di pochi mesi. L’avevamo strappata dalla strada, insieme con gli operatori della Caritas di Roma. Era ancora sotto choc per le violenze subite. Sarebbe dovuta venire al Centro per iniziare un percorso protetto, ma il giorno stabilito non si presentò. Non la vidi mai più. Io, all’epoca, ero una giovane suora. Tempo dopo Lina ci mandò a dire che, se si fosse presentata, l‘avrebbero uccisa. “Non venni non per proteggere me, ma mio figlio”. La sua storia cambiò la mia vita».

Suor Gabriella Bottani, 55 anni, milanese, comboniana, ha strappato dalla strada migliaia di donne come Lina. Per anni missionaria in Brasile, oggi coordina Talitha Kum (dall’esortazione tratta dal Vangelo di Marco: «Fanciulla, io ti dico, alzati!»), il network internazionale delle religiose, la «rete di reti» contro la tratta di persone dell’Unione internazionale delle superiore generali (Uisg) in collaborazione con l’Organizzazione internazionale dei migranti (Oim).

«Oggi siamo presenti in 96 Paesi dei cinque continenti – spiega Bottani –, in prima linea nel realizzare attività di contrasto ai trafficanti e per il reinserimento, anche sociale e lavorativo, delle vittime attraverso progetti che, ad esempio, ne accompagnino il rimpatrio. Per molte donne, purtroppo, la libertà non è più un valore. Proprio a loro, invece, dobbiamo restituire la bellezza di essere persona non per quello che si ha, ma per quello che si è».

Alessandra Rosa Albertini

Lavorare una vita, arrivare alla meritata pensione e… raccogliere i frutti di tanti sacrifici. Quando la liquidazione arriva, c’è chi corre a depositarla in banca, chi la spende per estinguere il mutuo, per comprarsi l’auto… e poi c’è chi decide di privarsene per un bene superiore.

Lo stesso bene a cui quella persona ha dedicato quarant’anni di carriera: la ricerca universitaria. Sembra una fiction e invece è realtà, la storia di Alessandra Rosa Albertini, biologa genetista a capo del Dipartimento di biologia e biotecnologie Spallanzani di Pavia fino a gennaio dello scorso anno.

La professoressa Albertini ha deciso di donare 250 mila euro (tutta la sua liquidazione) per cofinanziare posizioni di ricercatori a tempo determinato, junior e di assegnisti di ricerca.

«Una bella soddisfazione, non c’è dubbio» commenta la biologa 68enne che all’Università di Pavia era entrata da precaria tre mesi dopo la laurea, salvo poi – sei anni più tardi – ottenere il tanto agognato «posto fisso» a soli 30 anni. «L’idea di donare la mia liquidazione – racconta – nasce dal confronto tra la mia generazione carica di entusiasmo e opportunità e i giovani contemporanei. Oggi un trentenne che opera nel campo della ricerca sa già che dovrà convivere almeno altri dieci anni con la precarietà, sacrificando spesso gli affetti».

E questa prospettiva non fa che strozzare le speranze, generando così «cervelli in fuga» o eterni «bamboccioni». «Sono entrambe conseguenze di un problema strutturale – continua la docente –: i giovani d’oggi non percepiscono più da parte delle generazioni mature la positività e la volontà di investire su di loro».

Da qui la scelta controcorrente di Albertini: «Ho sempre considerato il mondo della ricerca e i miei collaboratori come una grande famiglia». Una famiglia dalle molte qualità che, tuttavia, soffre da circa vent’anni una crisi culturale gravissima. «La qualità e la preparazione che l’istruzione italiana garantisce oggi ai giovani è aumentata, d’altro canto, però, a forza di tagli, le opportunità post formazione si riducono giorno dopo giorno drasticamente» conferma la professoressa.

Che fare dunque per invertire la rotta? «Anzitutto credere nella ricerca! Dalle istituzioni alla piccola impresa. Anche se sembra un investimento senza ritorno, la ricerca paga sempre».

L’intero dossier, con le interviste integrali e altre storie di "eroine civili", è pubblicato sul numero di marzo 2020 del Messaggero di sant’Antonio e sull’edizione digitale del numero, che puoi provare gratuitamente cliccando qui.

 

 

Data di aggiornamento: 16 Marzo 2020
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