In paradiso… per un soffio
«Dov’è, o morte, la tua vittoria?», esclamava san Paolo, ebbro di gioia per la resurrezione di Cristo (1Cor 15,55). Ma, pur avendolo scritto moltissimi anni fa, era già avanti nella storia, molto avanti. Per lui ormai non si ponevano dubbi di sorta a tal proposito. Noi magari partiamo un po’ più indietro e procediamo più lenti di una lumaca addormentata. Probabilmente non sappiamo nemmeno porci nei termini corretti la domanda che preme alle pareti del cuore ancor prima che dell’intelligenza, lasciandoci lividi dolorosi nell’anima: che cos’è la morte, e che cos’è la vita? Dove sta l’instabile confine tra le due?
Ma che cos’è davvero morte e davvero vita? Sono sufficienti, sempre che siano almeno corrette, le nostre categorizzazioni, la facilità con cui archiviamo sotto l’una o sotto l’altra il nostro vivere? Domande maledettamente serie e ineludibili, su cui l’uomo, da quando è apparso sulla terra, non fa altro che interrogarsi, creare miti, scrivere poesie e canzoni, celebrare riti, narrare storie, zittire travolto dal mistero, provare a credere. Qualche volta si arrangia come può, utilizzando gli ingredienti che ha a disposizione culturalmente. Il risultato potrebbe lasciare alquanto a desiderare, per noi posteri dal palato razionale esigente, ma è proprio la storia di uno di questi maldestri tentativi di darsi una risposta ciò di cui vorremmo raccontare.
La vicenda
Casez, 1723. Il curato della chiesa dei Ss. Pietro e Paolo, don Michele Trentadue, acquista per la bella cifra di 4 Troni un quaderno: la carta è di ottima qualità, la legatura a spago è robusta, la copertina di cartoncino ha gli angoli rinforzati. Quaderno costoso, ma buono. Tanto che ancora oggi è in ottime condizioni, nell’archivio parrocchiale di Sanzeno, nella trentina Val di Non. Lo scopo, a quanto pare, giustifica la spesa e don Trentadue può iniziare la compilazione.
«1724. Li 16 ottobre. Una figliuola di Andrea Rossi di Revò abitante in Borz, e della quondam Giacoma fù sua moglie, che dopo tre giorni morta nel ventre della Madre al dire dell’Allevatrice Elisabetta Geri di questa Villa, venne al mondo col mezzo del taglio della Genitrice, e portata avanti la Beatissima Vergine, mutò il colore morello sul piede destro, ventre, e stomaco in bianco, la guancia destra divenne rubiconda, l’occhio sinistro un poco rilasciato in segno d’aprirsi, da quali segni, osservati in particolare da Bortolameo figlio d’altro Bortolameo Gerio, e Giovanni Bertoldo Monico, ambi di Casez, fui persuaso à dargli l’acqua “sub conditione”».
Il manoscritto riporta 130 verbali di miracoli avvenuti davanti all’immagine sacra della Madonna, da quello che abbiamo appena trascritto a quello dell’8 luglio 1742. Prodigi, però, monotematici, persino ripetitivi, se non nel cambiare dei protagonisti, della loro provenienza e di alcuni particolari «anatomici» che, come vedremo, sono in realtà essenziali affinché il miracolo possa essere considerato tale. Si tratta, infatti, di miracoli di répit, come si è soliti indicarli in francese: di morte sospesa, dilazionata o di resurrezione temporanea. Quando la morte non è del tutto annullata, ma solo rinviata quanto basta. Il tempo sufficiente, nel nostro caso, per riuscire a battezzare bambini morti alla nascita.
Piccole storie anonime
Il fenomeno, anche se poco noto, è stato molto diffuso, sia nello spazio, l’arco alpino ma anche più a sud e più a nord, sia nel tempo: almeno sei secoli, fino ai primi anni del ’900. In Italia, il registro dei miracoli di répit di Casez è un unicum, mentre altrove le testimonianze sono ormai affidate solo agli ex voto di alcuni santuari. Lasciamo però agli studiosi il compito di scandagliare questo tema così intrigante, e ad altri quello di studiare le vicende socio-religiose e anche artistiche che si intrecciano attorno alla chiesa di Casez e al suo altare mariano. Noi torniamo al nostro manoscritto.
Le annotazioni ci raccontano di neonati morti troppo presto, senza esserci stato il tempo materiale di battezzarli per bene. E di genitori, in particolare papà (le mamme, se non erano morte anch’esse durante il parto, come nel caso che abbiamo riportato, comunque se ne dovevano stare appartate per via della purificazione), che si sobbarcavano a volte anche trasferte difficili e faticose inseguendo la fama miracolosa dell’immagine sacra di Casez, portando con sé il cadaverino del figlio o della figlia. Il manoscritto riporta viaggi della speranza che hanno macinato anche centinaia di chilometri pur di presentarsi puntuali all’appuntamento con la misericordia.
Successe, per esempio, il 9 ottobre 1736: la triste comitiva era partita da Trenzano di Berlingo, in provincia di Brescia, lungo la Valcamonica, svalicando il passo del Tonale, e percorrendo circa 200km! Giunti infine nella chiesa di Casez, il piccolo defunto veniva adagiato sulla mensa dell’altare davanti all’immagine miracolosa: significativamente una Madonna con in braccio Gesù bambino. Insomma, una che di vita e di morte se ne intendeva. A quel punto tutti i presenti cominciavano a pregare, anche per ore: non perché il bambino resuscitasse a vita nuova, ma giusto il tempo necessario per infondergli velocemente il battesimo. Perché morire, si credeva allora, è niente, rispetto a morire non in stato di grazia. Non è quella che san Francesco chiamerebbe la «prima morte» da temere, bensì la seconda.
Quelli erano del resto tempi in cui la possibilità della morte di un neonato era altissima. Ma se ciò era comunque un dolore per i genitori, rappresentava quasi niente in confronto alla loro disperazione e alla vergogna se il piccolo non avesse potuto fare in tempo a ricevere il battesimo. Il bambino poteva anche restare anonimo per le anagrafi parrocchiali, e infatti nei nostri verbali non viene mai annotato il suo nome, non poteva però restarsene senza la qualifica piena di figlio e figlia di Dio. Poteva essere «nessuno» per la comunità civile e religiosa, ma non certo per la famiglia di Dio. La trovata del limbo convinceva poco, e consolava anche di meno.
Se non c’era altro da fare, ci si accontentava di seppellire i corpicini sotto una grondaia della chiesa: vuoi mai che l’acqua piovana, «toccando» anche solo il tetto dell’edificio sacro, non si riversasse come benedizione su di loro. Altrimenti non rimaneva che sperare in un miracolo. Gli occhi di tutti scrutavano ansiosamente il corpo inerme del bambino. Per riuscire a cogliere anche il minimo movimento o cambiamento di colore: un qualsiasi segnale che dicesse che la vita era momentaneamente ritornata in quel cadavere. Quanto bastava, a rigor dei sacri canoni, per impartire finalmente e lecitamente il battesimo. Breve istante tra morte e morte, sufficiente per entrare nella luce dei beati, l’unico gesto necessario per «lasciar andare» per sempre il piccolo defunto: che finalmente riposasse davvero in pace. E consolati rimanessero alfine anche i suoi genitori.
Frammenti di piccole storie anonime, dolorose ma piene di speranza, che si sono sottratte all’oblìo adagiate su questo altare, davanti all’immagine della Madre di Dio. O solo frutto di ingenua credulità, imbroglio dei sensi o, peggio, deliberato inganno da parte di preti senza scrupoli? Ci importa relativamente sapere se il miracolo di répit avvenisse o meno. La nostra fede ci dice che più insistiamo e più costringiamo Dio a prestarci attenzione, più piangiamo più i suoi occhi vedono. Ma certamente quelle persone, pur con le attenuanti di tutte le miserie umane possibili, credevano nella vita nel Cristo risorto. E sarebbero stati d’accordo con san Paolo.
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