Parole che curano
A colpire sono soprattutto i suoi occhi: profondi, vivacissimi. Difficile spiegarlo, ma da lei ti senti immediatamente «vista»: è come se la sua indubbia attitudine e l’impegno quotidiano per la cura trapelassero fin da subito da uno sguardo sinceramente curioso e accogliente delle persone che incontra. Giovanna Maria Gatti da decenni si occupa di salute, in particolare di salute psicofisica delle donne. È medico chirurgo, con un master in senologia. Opera all’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano, dove per tanti anni ha affiancato Umberto Veronesi. Ma è anche psicoterapeuta, oltre che autrice, con lo pseudonimo di MariaGiovanna Luini, di numerosi libri, nei quali illustra il particolare approccio medico-psicoterapeutico che la caratterizza. Firma anche un seguitissimo podcast, Terapie olistiche, ed è stata consulente di sceneggiatura pure (ma non solo) per Ferzan Ozpetek, nel film Allacciate le cinture.
Msa. Dottoressa Gatti, perché un medico, una chirurga, a un certo punto decide di diventare anche psicoterapeuta?
Gatti. In realtà ho sempre pensato che mente e corpo fossero integrati in un modo così profondo da essere entrambi necessari, anche per un medico, per prestare la cura nel modo migliore. Poi, l’esperienza quotidiana con le pazienti - perché in maggioranza sono donne, occupandomi di senologia - mi ha fatto comprendere che per me è più adatto, in termini di affinità per la cura degli altri, l’ascolto unito alla parola. Quindi da anni non vado in sala operatoria, per mia scelta, ma mi dedico alla relazione con le persone che hanno bisogno di cura, tutte, sia quelle che hanno o hanno avuto malattie tumorali sia quelle che non ne hanno avute, ma chiedono ugualmente un aiuto psicoterapeutico.
Lei pratica anche medicina olistica e integrata, correndo il rischio, come racconta nei suoi libri, di non essere del tutto compresa dai suoi colleghi…
Per me la medicina è una, ma esistono tanti approcci. Credo che le varie tradizioni terapeutiche e mediche abbiano qualcosa da dire l’una all’altra, quindi non si escludano a vicenda. Io, per esempio, non tollero che si dica che mi occupo di «medicina alternativa», perché non è affatto così. Sono convinta che la medicina convenzionale, fondamentale, debba aprirsi a quegli approcci cosiddetti non convenzionali che possono contribuire a integrarla. Ovviamente il tutto va fatto con intelligenza, perché bisogna essere consapevoli che in ogni situazione di ciascuna persona può essere necessario integrare oppure no. Dipende. La cura è qualcosa di unico ma molto ampio, che non può buttare via nulla ma non può nemmeno mettere insieme a caso. Ci vuole tanto studio, però, per poterlo fare in modo adeguato.
Nel suo libro, La via della cura (Mondadori, 2020) lei parla di autoguarigione. Vale a dire?
L’autoguarigione è la nostra capacità di riaccendere o ravvivare la fiamma vitale, quella che santa Ildegarda di Bingen chiamava viriditas. Nessuna cura, neanche la più avveniristica, può avere un effetto reale e definitivo se la persona che la riceve non attiva, dentro di sé, quella risorsa. Noi, infatti, abbiamo risorse interne che non solo cooperano con le cure che ci vengono prescritte quando necessarie, ma che rendono ragione della nostra capacità di affrontare le situazioni di malattia o di crisi, andando più in là, raggiungendo un nuovo equilibrio, quindi di fatto andando verso la cosiddetta guarigione. Tutto ciò che ci accade, principalmente arriva da dentro; esserne consapevoli aiuta a prendersi cura di quella voce interiore che è una voce importantissima per la cura. È una voce che sa, una saggezza, è qualcosa di molto profondo che va tenuto in considerazione e in qualche modo «raddrizzato» quando è andato in disequilibrio, riconnettendoci con il nostro sé.
Lei sostiene che un medico, per curare in modo adeguato i suoi pazienti, li deve amare. Ma scrive anche che l’amore può guarire. Possiamo allenare il nostro sguardo d’amore?
L’amore può essere evocato, è un’energia talmente forte, spontanea, generatrice, generosa e incondizionata che noi possiamo chiamarla. Ce l’abbiamo dentro. Quando dico che un medico o una psicoterapeuta per aiutarlo deve amare il paziente, non alludo a un generico buonismo. Intendo dire che deve avere a cuore – cuore inteso come «tempio dell’anima» – chi ha davanti. È il famoso: «Mi importa di te, mi interessa come stai, ti guardo, ti percepisco e tu mi stai a cuore, nel cuore». L’amore quindi si può attivare sempre, indipendentemente da chi hai davanti.
Nel suo libro Parla come ami (Mondadori, 2021), spiega il potere curativo delle parole...
Voglio raccontarle un episodio. Un bel po’ di anni fa sono venuta a Padova e, ovviamente, sono entrata nella Basilica del Santo. All’epoca ero solo una chirurga senologa, benché già avvertissi che, come ho scritto nel Grande Lucernario (Mondadori, 2018, ndr), cercavo dell’altro, anche se ancora non mi era chiaro che cosa cercassi. Allora entro nella Basilica e vedo una fila di persone in coda per toccare la tomba di sant’Antonio, un gesto che io non conoscevo. Così mi metto in fila pure io, tranquilla, con una curiosità mista allo scetticismo tipico della chirurga. Quando arriva il mio turno, poso la mano sulla tomba di sant’Antonio e subito «vedo», con una chiarezza che è ancora vivissima, me stessa, senza camice e senza nulla in mano, parlare con persone che hanno bisogno di una consolazione, di un ascolto, di una parola. Mi creda, sono rimasta folgorata. È stato un momento pazzesco, perché tra l’altro arrivava in una fase in cui, come dicevo, ero un po’ più scettica rispetto a oggi. Questa immagine ha determinato tutto il resto del mio percorso professionale, perché, grazie a quell’immagine, ho capito un sacco di cose, tra cui che ciò che io cercavo era l’uso della parola, ascoltata ma anche data, con la voce ma anche con i libri, per seguire il bene, inteso come cura. E infatti ho deciso allora di diventare anche psicoterapeuta. Le ho raccontato questo episodio per ribadire che le parole sono importanti, sono energia non solo contenuti; determinano nelle persone una risposta biochimica, neuronale, cioè nervosa, psichica ed energetica, ma anche sociale e spirituale. D’altra parte, non lo dice anche il Prologo del vangelo di Giovanni? «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. […] E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi»...
Anche il silenzio è importante?
Il silenzio è fondamentale. È un maestro che insegna l’ascolto, l’osservazione, l’auto-osservazione e insegna a usare le parole: nessuno che sia incapace di mantenere il silenzio sa poi usare le parole con una certa proprietà. Ogni giorno incontro persone che condividono l’importanza delle parole, ma di esse fanno un uso poco consapevole proprio perché non c’è in loro lo spazio del silenzio. Imparare ad affrontare il silenzio anche tra persone significa imparare la vera comunione. Per me libertà non è poter dire sempre quello che ci pare a priori: la libertà, il libero arbitrio deve prevedere anche la consapevolezza, la responsabilità, altrimenti è un atteggiamento superficiale. La libertà consapevole sa far tacere.
Nei suoi libri parla molto anche di perdono...
A volte noi teniamo dentro a lungo energie psichiche come la rabbia o il rancore, che si trasformano anche in energie fisiche che ci fanno male, ed ecco allora arrivare l’ipertensione arteriosa, alcuni problemi respiratorio-cardiaci, gastrite, reflusso gastroesofageo, problemi cutanei... Le emozioni sono potenti, vanno vissute ma poi lasciate andare. Il perdono serve proprio a lasciar andare emozioni che abbiamo bloccato. Per questo, se vogliamo parlarne in modo laico, il perdono non ha niente a che vedere con il «ti dico che ti ho perdonato, mi sento una buonissima persona e così via». No, il perdono è sciogliere la matassa ingarbugliata delle emozioni trattenute, è sapere che fanno male a me, è avere il coraggio di volermi bene. Il perdono si può fare in silenzio, è un respiro ampio, è come abbandonare uno zaino di mattoni che abbiamo portato sulle spalle troppo a lungo. Il perdono è importantissimo nella cura, anche nella cura fisica oltre che psicologica.
Il dolore non è mai una cosa buona, ma spesso, come lei scrive nel libro La via della cura, porta degli insegnamenti preziosi per la nostra vita. Come possiamo coglierli?
Il dolore può provocare fondamentalmente due reazioni: far chiudere il cuore o farlo aprire e mantenerlo aperto. Il dolore è un’esperienza che non è mai auspicabile, mai, però dinanzi a esso è importante mantenersi nella posizione aperta di osservazione, ascolto, percezione. E intanto dobbiamo continuare a camminare, anche quando ci sembra tutto buio, anche quando ci sembra che davanti ci sia una sorta di velo che ci impedisce di vedere il passo successivo. Questo «passo dopo passo» porta a cogliere degli spiragli e quegli spiragli possono diventare luce. Anche nella peggiore delle situazioni le emozioni sono fluttuanti, non sono sempre tenebrose, ci sono degli spazi, magari piccoli, di sollievo, ci sono degli input: è importante essere aperti per notare quegli input e afferrarli. E continuare a camminare, non chiudersi. Non dobbiamo mai prendere una posizione che sia assoluta, ma sempre lasciare che ci sia spazio per il possibile.
Lei è esperta anche della medicina di Ildegarda di Bingen. Chi è stata davvero questa donna, canonizzata e dichiarata dottore della Chiesa da Benedetto XVI nel 2012?
Ildegarda fu una monaca benedettina e una mistica straordinaria che, attorno all’anno 1000, fondò un monastero femminile che si autogestiva economicamente, mentre prima di lei i monasteri femminili dipendevano sempre da quelli maschili. Non solo: poteva predicare pubblicamente e lo faceva girando da sola per le città, cosa inaudita per l’epoca. Aveva moltissimi talenti, il dono della parola di cura prima di tutto: leggendo il suo Epistolario, si vede da quante persone venisse interpellata. Anche gli stessi monaci le chiedevano di usare la sua parola per creare armonia, pace, risoluzione dei problemi, ma anche cura. Ildegarda curava usando tutto: i rimedi naturali, ma anche la musica, la presenza oltre che le parole. Fu una vera maestra e ancora oggi «chiama», esattamente come sant’Antonio. Incarna un’energia femminile che, rimanendo femminile, non si lascia però abbattere e sa aver cura delle persone con qualunque mezzo. Non dimentichiamo che le sue doti di profezia furono riconosciute da Bernardo di Chiaravalle e questo la salvò da un’accusa di eresia. Ildegarda ha attraversato i secoli e il fatto che Benedetto XVI dopo mille anni l’abbia canonizzata e dichiarata dottore della Chiesa, dice tante cose. Fu una donna autentica, ricca di passioni, capace di forti legami. La vita intera di Ildegarda ci parla di cura: delle relazioni, degli affetti, di cura fisica e spirituale. E le sue cure funzionano ancora oggi.
Mi rendo conto che è difficile farlo in poche parole, ma può darci qualche consiglio per attivare quel guaritore che è in ciascuno di noi?
La prima cosa è fare piazza pulita di tanti costrutti. Una cosa che dico sempre a tutte le persone che vengono da me è di trascorrere almeno tre giorni osservandosi, senza giudizio, per ascoltare la loro voce interiore, silenziando tutte le altre voci, come quella mentale, quella della cultura che pure è importante. Dobbiamo fare silenzio e starci a osservare, chiedendoci: come reagisco alle cose? Quali sono gli eventi che mi stimolano positivamente o negativamente? Che cosa davvero mi piace? Il mio corpo come reagisce davanti a quanto mi succede? E magari tenendo un breve diario in cui annotare le cose. Di solito, le persone scoprono di non conoscersi affatto. Eppure, il nostro corpo dice tanto, basta osservarlo e ascoltarlo senza giudizio. Il guaritore interno lo possiamo percepire solo se siamo autentici.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!