Più armi più insicurezza
«Mio nonno aveva un sogno: che i suoi quattro figli non venissero giudicati per il colore della pelle, ma per la loro personalità. E anche io ho un sogno, e cioè che quando è troppo è troppo. E che questo dovrebbe essere un mondo senza armi, punto». Sorride, ma non per questo è meno determinata Yolanda Renee King nei suoi 9 anni, mentre scandisce queste parole di fronte a oltre 800 mila giovani accorsi a Washington D.C. per la March for our lives (Marcia per le nostre vite) il 24 marzo scorso. Yolanda è la nipotina di quel reverendo Martin Luther King Jr, premio Nobel per la pace assassinato proprio cinquant’anni fa a Memphis con un colpo di fucile di precisione, un Remington 760 legalmente detenuto.
«Troppo è troppo», ma anche «adesso basta» è la traduzione possibile di enough is enough, lo slogan che sta contagiando migliaia di persone, schieratesi contro la troppo facile diffusione di armi leggere e d’assalto nel Paese. Secondo l’agenzia giornalistica «Associated Press», si tratta della mobilitazione giovanile a stelle e strisce più imponente dai tempi del «no» alla guerra in Vietnam: cortei si sono formati in 836 città, non solo negli Usa ma in tutto il mondo, anche a Milano, dove i Giovani per la Pace della Comunità di Sant’Egidio hanno portato il «no alle armi» in galleria Vittorio Emanuele con un flash mob.
L’iniziativa parte dal basso. Dagli studenti superstiti del liceo Douglas di Parkland, in Florida, dove il 14 febbraio diciassette persone sono state uccise da un 19enne. È solo l’ultima, nemmeno la più atroce, delle stragi a scuola: dal 1999 a oggi, ovvero dal massacro di Columbine in poi, si contano 193 sparatorie in scuole primarie e secondarie, con 129 morti, 255 feriti e 187 mila studenti coinvolti. Ne parliamo con Giorgio Beretta, analista per l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di difesa e sicurezza (Opal) di Brescia. «I ragazzi americani – commenta l’esperto – hanno avuto il merito di mettere gli adulti di fronte a un dato di fatto: gli Stati Uniti sono un Paese in stato di guerra. Non solo i morti per armi da fuoco (più di 15 mila all’anno, esclusi i suicidi) sono di gran lunga superiori ai soldati americani uccisi in Afghanistan e Iraq dal 2001 a oggi (circa 9 mila), ma sono anche molti di più rispetto ai decessi per Aids (12 mila) e per altre malattie. Se consideriamo anche i suicidi con armi da fuoco (circa 39 mila all’anno), il numero delle vittime diventa spaventosamente simile a quello per incidenti stradali e per decessi per cancro al seno (40 mila). Tutto questo succede non solo per la facilità con cui si possono acquistare armi negli Stati Uniti, ma anche per la loro disponibilità e ampia diffusione». La base legale è il secondo emendamento della Costituzione americana, al quale viene dato un valore assoluto e intoccabile senza considerare a sufficienza il fatto che, approvato nel 1791, rispecchia la società e le armi di quel periodo. Non aiuta, poi, la struttura federale degli Usa, con ogni Stato a interpretare in maniera più o meno restrittiva tale assunto. Così, in alcune zone d’America un under 21 non può comprare alcol o sigarette, ma è perfettamente legale – non diremmo normale! – che acquisti un’arma da fuoco, fosse anche una semi automatica d’assalto.
Una delle molle principali che spingono all’acquisto sembra essere la percezione di insicurezza, la paura di essere aggrediti. Paura che si scioglierebbe proprio armandosi di più. Ed ecco allora l’idea avanzata da Donald Trump di armare professori e maestri nelle scuole per evitare altre stragi. «Non credo proprio che paura e insicurezza si possano risolvere armandosi» afferma Giorgio Beretta. «È come se si cercasse di vincere la solitudine acquistando una televisione: in qualche raro caso può funzionare, ma nella maggior parte è un palliativo e può anzi essere controproducente. La paura e l’insicurezza sono, infatti, stati emotivi a fronte di un pericolo, di una minaccia reale, ma anche presunta o indotta. Occorrerebbe pertanto capire le ragioni di questo stato d’animo e quanto vi sia di reale e di indotto. Ma, soprattutto, come dimostra la situazione negli Stati Uniti, la diffusione delle armi aumenta la percezione generale di insicurezza e, di conseguenza, la reazione, anche violenta, non solo dei cittadini ma pure da parte delle stesse forze dell’ordine. In una parola: se siamo tutti armati non ci sentiamo affatto più sicuri, ma finiamo con l’avere ancor più paura gli uni degli altri e la nostra insicurezza, anziché diminuire, aumenta. Come ha scritto papa Francesco, la corsa alle armi “serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti” (Evangelii gaudium 60)».
Le armi leggere in Italia
E nel nostro Paese? Non c’è problema. Se gli Usa hanno il secondo emendamento, la nostra Costituzione ha nell’articolo 11 un baluardo inespugnabile, quando afferma che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie». Ci potremmo aspettare, a cascata, scelte politiche e sociali italiane conseguenti. Ma non è così semplice, né lineare. Nemmeno per quanto riguarda i numeri. Le stime più accreditate (dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo) ritengono che in Italia circolino circa 7 milioni di armi da fuoco, pochi se confrontati con i 270 milioni statunitensi (secondo lo Small Arms Survey), ma comunque molti in senso assoluto. Ad alterare i dati non è solo l’enorme mole di armi illegali (provenienti da furti, traffico d’armi, mercato nero). Per quanto possa apparire incredibile, non esiste un censimento affidabile nazionale delle armi legalmente detenute. L’Opal di Brescia e il movimento pacifista da tempo chiedono trasparenza in merito, ma finora senza risultato. Intanto, crescono le licenze per uso sportivo e venatorio, molto più facili da ottenere rispetto al porto d’armi per difesa personale. A ogni licenza, poi, sono associabili più armi, visto che una singola persona può detenere contemporaneamente tre armi comuni da sparo, sei sportive, otto antiche, un numero illimitato di fucili e carabine da caccia e in aggiunta 200 cartucce per armi comuni, 1.500 cartucce per fucili da caccia e 5 chili di polveri da caricamento.
Se questo è lo scenario del «privato», nel «pubblico» le cose non sono migliori, anzi. Si potrebbe pensare: «armarsi» è di destra e «disarmarsi» di sinistra, e invece, scavando appena sotto la superficie, si scopre che l’affare armi in Italia riguarda in maniera trasversale tutte le componenti e tutti i governi, sia per mancata trasparenza, sia per sviluppo degli investimenti e delle esportazioni. Giorgio Beretta precisa: «Armarsi o meno è una decisione personale. Ma “l’affare armi” concerne anche la produzione, l’acquisto e l’esportazione di armamenti e sistemi militari da parte dello Stato. Entrambi gli ambiti coinvolgono, in modo diverso ma poi non così dissimile, un’ampia parte delle forze politiche».
L’esperto propone due esempi, a iniziare dalla principale fiera italiana delle «armi comuni», Hit Show, che da quattro anni si tiene a Vicenza. «È promossa da Italian Exhibition Group, i cui maggiori azionisti sono le amministrazioni locali di Rimini e Vicenza, entrambe di centrosinistra. Questa fiera ha l’evidente scopo di incentivare la diffusione delle armi in Italia, tanto che, nonostante da anni la Rete Italiana per il Disarmo abbia chiesto di vietarle, in fiera sono consentite raccolte di firme e iniziative di tipo politico: quest’anno, poi, la fiera ha fornito la passerella elettorale a diversi politici del centrodestra».
Ancora più macroscopico il caso delle spese militari e dell’esportazione di armamenti. «Sia i governi di centrodestra che quelli recenti di centrosinistra le hanno incrementate tanto da raggiungere, proprio negli ultimi anni, record storici. La questione è tutta politica: da un lato c’è la tendenza dei politici di ottenere risultati immediati senza, di conseguenza, scontentare settori dei poli industriale, finanziario e anche del lavoro mettendo a rischio le loro posizioni acquisite; dall’altro, va registrata la crescente incapacità di gran parte del mondo politico di progettare a medio-lungo termine, con scelte di razionalizzazione e riconversione di settori, come quelli della produzione militare, che da anni non rispondono più alle effettive esigenze della nostra difesa e che, per sostenersi, puntano sulle esportazioni nelle zone di maggior tensione del mondo, a cominciare dai Paesi arabi».
La strada per «risolvere» la questione armi è tutt’altro che segnata, e dovrà passare per la maggiore consapevolezza e il coraggio di tanti cittadini, sull’esempio dei giovani statunitensi, di Yolanda Renee King e di suo nonno Martin Luther, magari riscoprendo un altro grande, don Tonino Bello, che nella sequela di Gesù aveva trovato fondamento per l’azione di pace. Perché, come diceva don Tonino, «il popolo della pace sta in piedi. Non è un popolo di rassegnati. In piedi, costruttori di pace! Sarete chiamati figli di Dio».
L'articolo completo è pubblicato sul numero di maggio del "Messaggero di sant'Antonio" e nella corrispettiva versione digitale (provala, gratuitamente, a questo link!)