Poveri col lavoro
La parola «povertà» indica la mancanza, la carenza di qualcosa. Nella Grecia classica per lo stesso concetto si usava il termine penìa. In italiano tracce di questo vocabolo si trovano nel linguaggio della medicina. Leucopenia, per esempio, è una diminuzione dei globuli bianchi (leucociti). Nel campo dei disturbi psichici, la peniafobia è l’irrazionale paura di perdere il benessere acquisito. Ma per 14 milioni di italiani, il 23% della popolazione, proprio questa preoccupazione di «cadere in miseria» è tutt’altro che irrazionale/immotivata. Stiamo parlando delle persone (quasi una ogni quattro) che il rapporto Istat 2025 definisce «a rischio esclusione sociale». Sotto di loro, ci sono poi gli ultimi della classe: 5 milioni e 700 mila individui (pari al 9,7% dei residenti) che il «salto nel baratro» l’hanno già fatto e si trovano in uno stato di povertà assoluta. Ciò significa che un individuo su dieci «non ha accesso a beni e servizi considerati essenziali».
Spostiamo ora lo sguardo sui Centri di ascolto e servizio della Caritas che si occupano sul campo di «sofferenza sociale». In 10 anni i poveri assistiti sono aumentati del 62%. La crescita è diventata impetuosa dal 2019: allora 191mila persone, oggi 277mila, ma il numero reale delle «famiglie ascoltate» è di certo maggiore, perché nell’elenco mancano quelle seguite dai Centri diocesani non informatizzati. Tra gli assistiti ci sono cittadini italiani e stranieri, le richieste sono aumentate più al Nord che al Sud, che comunque in termini complessivi sta decisamente peggio. Il problema è che un lavoro magari stabile ma spesso sottopagato o part-time, non basta più a mantenersi. Tanto che, secondo Caritas, andrebbe ridefinito il concetto stesso di povertà, mettendo accanto ai disoccupati anche i «working poor», i lavoratori poveri. Sono tantissimi: il 23% di quanti chiedono aiuto. Ovviamente tutto si acuisce se si hanno figli piccoli o si è anziani soli. Ci sono poi gli affitti troppo alti da pagare, le bollette, le spese mediche insostenibili. Uno dei capitoli più dolorosi è quello della salute, ben 6 milioni di persone hanno dovuto rinunciare a cure per loro necessarie. E la Caritas che può fare? In primo luogo, erogare farmaci e aiutare a effettuare una visita medica.
La solidarietà, insomma, esiste, tappa falle, agisce concretamente. Oltre alla Caritas ci sono altri soggetti, volontari, ambulatori aperti a chi non sa dove andare, fondazioni che raccolgono medicinali o viveri. Sono tutte azioni di estrema utilità. Ma chi anima queste organizzazioni è il primo a dire che «la solidarietà non basta». L’elemento su cui invitano a riflettere è che la povertà in Italia si sta cronicizzando. Chi finisce nel girone dell’emarginazione non ne esce più, assume tutte le dimensioni dell’esclusione, diventa «invisibile» agli altri. Che fare? Le associazioni impegnate sul campo si sono unite in una «Alleanza contro la Povertà». Dicono che non siamo di fronte a una fatalità, il pubblico deve intervenire, i bonus non bastano. E il reddito di cittadinanza? Andava riformato piuttosto che abolito. Quelli dell’Alleanza sostengono che si è sempre in tempo, comunque, per adottare nuovi provvedimenti universalistici. Del resto, per altre cose i soldi si trovano, il problema è la volontà politica.
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