Quando la Basilica fu a rischio
Otto secoli sono un arco di tempo molto ampio che, oltre alle glorie e agli splendori della Basilica, porta con sé anche degli sfortunati eventi che hanno messo in pericolo il complesso e i frati che lì hanno vissuto. Il più ricordato è l’incendio del 1749, ma vogliamo fare memoria di altri fatti meno famosi che però hanno causato apprensione e danni comunque gravi, sempre affrontati con il sostegno dei padovani e soprattutto del Santo.
L’«orribil meteora» del 1394
Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile del 1394, «un’orribil meteora» spaventò a morte i cittadini di Padova. Non si è ben capito di cosa si sia trattato, forse una folgore; resta il fatto che lo scoppio fu devastante e causò gravi danni alla Basilica e al convento, per i quali si temette il completo collasso, se non fossero stati rapidamente riparati. A causa del periodo difficile, segnato anche dalla minaccia dei Visconti di Milano, non c’erano denari né in convento né in città: si implorò il favore di papa Bonifacio IX, il quale scrisse a fine aprile una lettera per invitare i fedeli di tutta la cattolicità a una colletta per l’immediato restauro della «casa dei frati dell’ordine dei Minori di sant’Antonio di Padova confessore e la sua chiesa, nella quale riposa il corpo dello stesso santo, venerato con la massima devozione dal popolo». In pochissimo tempo, da ogni dove, arrivarono elemosine sufficienti a far dimenticare il disastro.
Il «guasto» del 1513
L’esercito imperiale, espulso da Padova nel 1509, continuava ad assediare la città del Santo benché fosse difesa dalle truppe veneziane. Il convento era situato lungo le mura meridionali della città ed era bersaglio di colpi dell’artiglieria nemica davvero devastanti, come ricorda anche il Bembo: «Palla di sasso un piede e mezzo grossa d’alto nella città cadendo, i coperti delle case e i palchi perforava e largamente guastava con morte e gran danno». Ma non erano solo le armi a distruggere: nel 1513, allo stremo della resistenza, il capitano Bartolomeo d’Alviano aveva progettato la demolizione del complesso del Santo per erigere delle barricate a difesa della città. Il 17 agosto, oltre un centinaio di operai cominciarono a demolire il convento e solo l’intervento del procuratore Andrea Gritti riuscì a preservare la Basilica dallo scempio. Provvidenzialmente, poco dopo l’assedio terminò; per diversi anni i frati furono costretti ad adattarsi in cameroni e bugigattoli, e a chiedere prestiti per procurarsi il sostentamento, perché i loro terreni e coltivazioni e anche le loro celle erano andati distrutti a causa delle battaglie.
Mai più fuochi sui tetti
Il 30 novembre 1567 si festeggiava l’elezione di Pietro Loredan a doge di Venezia. Le vie di Padova erano gremite di gente e si erano messi dei lumi alle finestre di tutti gli edifici, anche delle torri e dei campanili. Perfino la cupola dell’Angelo della Basilica era illuminata. Ma le libere fiamme, mosse dal vento, finirono con l’appiccarsi alla pece del tetto, che fece liquefare il piombo della copertura, il quale attaccò il fuoco alle travi della cupola. In poco tempo l’incendio divampò: secondo il Polidoro, fu solo il favore del cielo a fermare le fiamme. Il danno fu molto grave, al punto che si decise allora che mai più si sarebbe posto del fuoco sui campanili o sui tetti del Santo.
L’esplosione del Maglio
«Fece tanto strepito et fracasso che tutti credeano che il mondo finisse». Alle ore 10 del 24 maggio 1617 la città di Padova fu devastata da una tremenda esplosione che rase al suolo 27 case e ne rovinò più di 70, guastando anche la Basilica e il convento del Santo. A esplodere era stata la polveriera del Maglio, vicino all’Orto Botanico, a un centinaio di metri dal complesso basilicale. Inizialmente in quel luogo vi era un maglio per battere il rame, mosso dall’acqua del piccolo canale, ma in seguito divenne luogo di fabbricazione di polveri da bombarda. Quella mattina, una scintilla si appiccò alle polveri e il fuoco raggiunse i barili che scoppiarono: il rimbombo si sentì 25 miglia lontano, la terra tremò, distruzione e morte ovunque. Anche la Basilica ebbe danni gravissimi: tutte le vetrate, alcuni muri, volte, colonne, archi e logge si scossero talmente che caddero, in altre pareti si aprirono crepe da cima a fondo. Subito si iniziarono le ricostruzioni e riparazioni, con grandi spese, ma anche in questo doloroso frangente Padova ebbe il conforto di vedere la protezione del Santo, di cui si attestano due fatti miracolosi.
Grandine devastatrice
La mattina del 26 agosto 1834 grandi nuvoloni si moltiplicavano nel cielo di Padova. A mezzogiorno la volta era tutta coperta, mentre soffiava un soffocante vento da est. Nel pomeriggio le nubi continuavano ad agitarsi, senza lampi né tuoni. D’improvviso, lontani, due fulmini, seguiti da una grandinata di due minuti; poi un altro fulmine, più vicino e la grandine diventava più grossa, fitta, terribilissima, con un rumore incessante. Il terrore colse i presenti quando la grandine iniziò a cadere come pietre, macigni… Dopo venti minuti, che erano sembrati ore, la bufera cessò; i grani più grossi pesavano da 6 a 7 libbre e dopo due giorni non erano ancora liquefatti. I fabbricati di Padova erano rimasti tutti danneggiati, le statue del Prato della Valle mutilate, le abitazioni scoperte. Senza la mano destra che benedice la statua marmorea di sant’Antonio nella facciata della Basilica, la statua equestre del Gattamelata privata delle redini. Ma, per grazia di Dio e del Santo patrono di Padova, non ci fu nemmeno una vittima.
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