Quando nasce uno stile
Che si tratti della lista della spesa o del nuovo best seller mondiale, scrivere richiede sempre una buona dose di concentrazione e comodità. Avete mai provato a farlo in piedi? O magari sdraiati a terra? Chissà che cosa avrebbe partorito Alessandro Manzoni se, invece di stare seduto alla scrivania (vedere per credere lo schizzo di Alessandro Greppi Interno dello studio di Alessandro Manzoni a Milano o direttamente l’originale in via Morone 1), avesse composto i Promessi sposi (dal 1821) appollaiato su uno sgabello o aggrappato a un leggìo. La mente funziona meglio se il corpo è a proprio agio. Non c’è da stupirsi, dunque, se, oltre un secolo dopo, più precisamente nel 1956, una Claudia Cardinale 18enne viene ritratta da Federico Garolla mentre, carta e penna alla mano, sprofonda nella gommapiuma rivestita di nastrocord della poltrona Lady. Perfetta sintesi di tecnologia e artigianato made in Italy, questo pezzo di design, realizzato nel 1951 da Marco Zanuso per Arflex, ora, oltre che in foto, si può ammirare dal vivo, a Gorizia, nell’ambito della mostra «Italia Cinquanta. Moda e design. Nascita di uno stile», a Palazzo Attems Petzenstein fino al 27 agosto.
Curata da Carla Cerutti, Enrico Minio Capucci e Raffaella Sgubin, l’esposizione prende in esame un intervallo di tempo breve ma molto significativo: un ventennio che – a partire dal secondo dopoguerra – attraversa gli anni del boom economico e segna l’origine dello stile italiano, tuttora fiore all’occhiello del nostro Paese. Ma prima di addentrarci nell’esposizione partiamo dalle basi… «Stile significa l’impronta, la forma esteriore che definisce il carattere, il modo di pensare e di vivere di una persona o di una collettività» scrive nel catalogo della mostra Anna Del Bianco, direttrice generale di ERPAC (Ente Regionale per il Patrimonio Culturale) del Friuli-Venezia Giulia. «Definire lo stile di un popolo come quello italiano, che ha alle spalle secoli di storia e di cultura, di dominazioni diverse, è un esercizio di alta acrobazia – continua la dirigente –. Eppure, nonostante questo, c’è qualcosa in cui tutti ci riconosciamo: la passione per ciò che è bello e ben fatto, utile e funzionale». La bellezza, dunque, come trait d’union di un Paese che ha saputo rialzarsi dal baratro in cui la guerra l’aveva gettato e, facendo perno su creatività e tradizione, ha raggiunto negli anni Cinquanta il quinto posto al mondo per produzione manifatturiera. Sono gli anni in cui il design si afferma sul mercato a 360 gradi, influenzando un po’ tutti i settori produttivi, da quello dei mezzi di trasporto fino a quello degli elettrodomestici, dell’arredamento, dell’oggettistica e della moda.
A Palazzo Attems Petzenstein le testimonianze di questa contaminazione accompagnano il pubblico per tutta la mostra, tra lampade, tavoli, sedie, vasi, stoffe, tappeti, arazzi, abiti, accessori e così via. Sono tutti figli della tecnologia e dell’industria, che dalla metà del secolo scorso ha ripreso a correre, puntando sulla produzione in serie. Ma scommettere sull’innovazione non significa rinnegare il passato e le proprie origini. Anzi. Vedere per credere la poltroncina Catilina P4 di Luigi Caccia Dominioni (1957), ispirata a un modello quattrocentesco. O lo sgabello Mezzadro dei fratelli Pier Giacomo e Achille Castiglioni (1957), realizzato fissando un sedile da trattore su una balestra d’acciaio curvato. «Il design italiano ha costituito il nuovo rinascimento delle arti applicate in virtù di una serie di contiguità di saperi artistici e sensibilità culturali, competenze artigianali e intuizioni della piccola e media industria» ha scritto Aldo Colonetti in Il linguaggio della differenza (da Design italiano del XX secolo, Art Dossier, 2008). Fanno parte di questo nuovo «rinascimento» anche i sei piatti della serie Specialità venete con ricette tipiche, realizzati da Piero Fornasetti negli anni Cinquanta (serigrafia trasferita su porcellana) e la lampada da terra a tre bracci Triennale di Angelo Lelii per Arredoluce: un’icona in ghisa, ottone e alluminio verniciato presentata alla VIII Triennale di Milano nel 1947.
Si ispirano alla tradizione, ma anche alla natura, i vasi di Archimede Seguso, mastro vetraio muranese che gioca con piume, merletti e losanghe nelle sue serie a partire dal 1952. Scelgono il vetro soffiato anche Paolo Venini per la sua Coppia di bottiglie con tappo mod. 4497 (1956) e Giulio Radi per il vaso della serie A reazioni policrome (1950), lavorato a nido d’ape con inserimenti di fogli d’argento e polveri metalliche. A poco servono, però, preziosità e bellezza se non sono accompagnate dall’utilità. Ed ecco allora che anche un Thermos portaghiaccio da tavolo (Tre A-Attualità Artistiche Artigiane di Bruno Munari, 1955) può diventare un’opera d’arte, come pure un servizio da tè composto da tre teiere impilate, con tanto di coperchio, zuccheriera e piattino (Giovanni Gariboldi, Servizio Colonna, 1954, Richard Ginori, porcellana Ariston).
Complice il «modello americano», la cucina non è più una stanza a sé, ma diventa il perno attorno a cui ruota la vita domestica. In cucina si sistemano orologi che scandiscono il tempo (Angelo Mangiarotti, Bruno Morassutti, orologio da tavolo Secticon, 1956; Gino Valle, orologio da tavolo/muro Cifra 5, 1956), e televisori che aiutano a trascorrerlo in allegria (Sergio Berizzi, Cesare Buttè, Dario Montagni, televisore a telescopio orientabile Phonola 17/18, 1956). Tra le mensole prendono posto Sifoni Autoseltz (Sergio Asti per SACCAB, 1955), cestini portapane in filo d’ottone cromato (Ufficio Tecnico Alessi, Cestino rotondo mod. 826, 1951) e fette di anguria in smalto su rame (Gio Ponti, Anguria, 1956, esecuzione Paolo De Poli). «Deus ex machina del design italiano», grazie alla sua creatività «tentacolare» – per usare le parole di Mapi Maino e Irene de Guttry (Mobili e arredi anni Quaranta e Cinquanta, Il Sole 24 Ore, 2013) –, Gio Ponti promuove la produzione industriale e, nel contempo, l’artigianato artistico.
Architetto, designer e direttore della rivista «Domus» (dal 1928 al ’41 e dal ’48 al ’76), Ponti è anche l’ideatore del Premio Compasso d’oro, organizzato insieme a La Rinascente (e successivamente all’Associazione per il Disegno Industriale) a partire dal 1954, nell’intento di promuovere e valorizzare il design italiano in ogni aspetto della vita quotidiana. In quasi 70 anni di storia, questo «Nobel del design» ha conferito oltre 350 riconoscimenti. Sul podio dei premiati anche due oggetti iconici e popolari come la macchina da cucire Mirella di Marcello Nizzoli ed Emilio Cerri (1957) e la macchina da scrivere Lettera 22 di Marcello Nizzoli e Giuseppe Beccio (1950). Ennesima prova di quanto il design fosse già radicato nel tessuto sociale dell’epoca.
La moda siamo noi
Ognuno di noi ha una data di nascita da festeggiare. E la moda italiana non fa eccezione. Il suo compleanno cade il 12 febbraio. Era, infatti, il 12 febbraio del 1951 quando nel salone di Villa Torrigiani, a Firenze, andava in scena la First Italian High Fashion Show for Foreign Firms, in parole povere la prima vera sfilata di moda italiana. A organizzarla nella sua stessa casa, Giovanni Battista Giorgini, versiliano titolare di un ufficio di esportazione che annoverava tra i clienti grandi magazzini come Tiffany di New York e I. Magnin a San Francisco. In una serata sfilarono le creazioni di nove case di alta moda – Simonetta, Fabiani, Sorelle Fontana, Emilio Schubert, Carosa, Marucelli, Veneziani, Noberasco, Vanna – e due di moda boutique (l’antecedente del pret-a-porter) – Emilio Pucci e Tessitrice dell’Isola. L’evento ebbe un successo strepitoso, tanto che, cinque mesi dopo, nella seconda edizione i buyer passarono da sei a trecento. Merito della qualità degli abiti proposti, ma anche dell’atmosfera creata da Giorgini (a detta del giornale «Tempo», «Il Cristoforo Colombo che ha scoperto l’America per i sarti italiani») rievocando il Rinascimento che tanto appassionava la classe media americana (non a caso nell’invito della prima sfilata compariva una riproduzione della Dama con il liocorno di Raffaello, 1505-1506). Con buona pace dell’haute couture francese, che vantava radici seicentesche, il marchio Made in Italy era stato lanciato e da allora la sua fortuna, seppur con alti e bassi, non si sarebbe più fermata.
Inizia da questo anniversario la seconda parte della mostra goriziana dedicata alla moda degli anni Cinquanta. Tra foulard, bluse, abiti da sera, foto e bozzetti, a Palazzo Attems Petzenstein va in scena il trionfo della femminilità. Quattro anni dopo l’esordio sulla passerella fiorentina, le Sorelle Fontana eleggono la loro testimonial d’eccezione: è l’attrice Ava Gardner a indossare l’abito da giorno Pretino (inizialmente chiamato Preghiera del mattino). Alle origini di questo capo in fresco di lana, forse, il suggerimento di un prelato vaticano: «Perché non realizzare un abito ispirato all’abito talare?». Il risultato, con tanto di profilo e bottoni rossi, cappello «saturno» e crocifisso sul petto, riveste un manichino dell’esposizione friulana. E apre la strada a tante altre creazioni indossate negli anni dalle cosiddette «divine» del cinema e della musica. Se la regina delle coreografie acquatiche Esther Williams nel 1957 viene immortalata sorridente durante la prova dell’abito da sera Nove gonne di Roberto Capucci (in mostra, oltre alla foto, una riproduzione del 1990 da cartoni originali), più concentrata appare Maria Callas, stretta in un corpino damascato, accanto allo stilista Emilio Pucci nel 1955.
La moda italiana mira a esaltare la personalità di chi la indossa, e aiuta a sentirsi a proprio agio. Niente di strano, dunque, se il maestro delle calzature Salvatore Ferragamo riesce a spaziare dalle sensuali décolleté con tacco a spillo Kiki, indossate da Marilyn Monroe in A qualcuno piace caldo (1959), fino alle ballerine con tomaia in camoscio e suola a conchiglia soprannominate Audrey, in onore dell’attrice Hepburn, affezionata cliente del maestro. Tra le sale di Palazzo Attems Petzenstein si susseguono brevetti e modelli pluripremiati, come il sandalo invisibile in filo di nylon e camoscio che valse a Ferragamo il Premio Neiman Marcus (l’Oscar della moda) nel 1947. Capolavori di velluto e corda intrecciata (pensiamo alle borsette di Robera di Camerino), manifesti e opere d’arte su twill di seta. Il riferimento è ai foulard di Emilio Pucci, che riproducono a colori sgargianti Piazza del Campo di Siena e il Battistero del Duomo di Firenze (1957).
La moda degli anni Cinquanta ama stupire. È preziosa, come la borsa-gioiello da sera di Luciana de Reutern in raso di seta, cordoncino metallico e strass (1959 circa). Fa sognare, come i bozzetti di Renato Balestra per le Sorelle Fontana. Molto spesso non è per tutte le tasche. Ciononostante, resta scolpita nell’immaginario collettivo. Perché, al di là dei pregiudizi, dietro una creazione di moda, o di design, c’è il sudore di chi l’ha concepita e creata. C’è il lavoro di un padre o di una madre che deve sfamare la propria famiglia. C’è cultura, tradizione, orgoglio, voglia di riscatto, senso di appartenenza. E, in definitiva, c’è una storia. La nostra storia.
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