29 Settembre 2024

Quei bambini interiori

Il Vangelo ci insegna ad amare la fragilità, quella che abita dentro di noi così come quella dei nostri cari. È la parte bambina che ci appartiene e che spesso rifiutiamo. Amandola, invece, amiamo Dio.
Quei bambini interiori

© Giuliano Dinon / Archivio MSA

«In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: “Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo. Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”. E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”». (Mc 9, 30-37)

Che Vangelo strano! Gesù desiderava che nessuno sapesse della sua presenza in Galilea, per tenere delle tranquille «lezioni private» ai suoi discepoli. L’esigenza di appartarsi nasce dalla necessità di anticipare ai suoi discepoli la vetta di tutta la sua esperienza terrena: amare l’umanità fino a morire per essa e dimostrare che si può risorgere dalle tenebre del male. Un atto sublimemente umano, dare la vita per amore, e un atto prettamente divino, risorgere dalla morte. 

Gesù desidera introdurre i suoi amici al fine ultimo di tutto. In risposta, i suoi discepoli, subito dopo queste «ripetizioni private», che cosa fanno? Discutono su chi era il più grande tra loro. Ma quanto simpatici sono ’sti apostoli? Sembra di vedere me (Edoardo) che, dopo aver ascoltato una catechesi dai frati, tornando in macchina a casa, comincio a litigare con Chiara su quando si debba sfoltire la siepe del giardino (per la cronaca: Chiara di solito vuol farlo subito, mentre io desidero posticipare il lavoro al successivo fine settimana, perché in quel momento sono troppo stanco). Questi discepoli mi assomigliano tutte le volte che discuto con mia moglie su chi ha l’ultima parola nel decidere come intervenire con i figli, o su come gestire una particolare situazione. Ho la fortuna di frequentare la Chiesa, spesso mi capita di proclamare cose meravigliose a partire dalla Parola di Dio, e qualche minuto dopo mi ritrovo, come i discepoli, a discutere su cose che sono distanti mille miglia da quello che, poco prima, mi aveva scaldato il cuore. 

Però Gesù, domandando agli apostoli di che cosa stavano discutendo per la strada, permette loro il primo atto di consapevolezza: prendere coscienza che il loro interagire non era ispirato all’insegnamento appena ricevuto. Rendendosi conto di questo, si vergognano e nessuno di essi ha il coraggio di rispondere alla domanda. Spesso anche a me capita di sentire interiormente, nel bel mezzo di una discussione mal gestita con Chiara o con i miei figli, la voce del Padre che mi chiede: «Ma che cosa stai dicendo Edoardo? Ma come metti insieme la catechesi che hai fatto ieri sera al percorso de “Le 2 miglia” con il tuo atteggiamento di adesso?». L’atto di consapevolezza che germoglia dalla domanda interiore mi impone di tacere, frenando così il perseguimento del tentativo di dimostrare le mie ragioni. 

Gesù mi ricorda che l’unico modo per regnare è servire, che se voglio essere il primo nel Regno dei Cieli sono chiamato a donarmi totalmente alla mia famiglia. Ciò non significa che io debba rispondere di «sì» a ogni loro richiesta, ma che devo frenare il mio atteggiamento respingente, saccente, e scegliere di avere un ascolto comprensivo, accogliente, paziente, che sa anche dire di «no», ma senza la presunzione che l’altro si sottometta automaticamente alla mia presunta autorità.

Gesù mi ricorda che per accogliere Lui non devo fare tante catechesi o tanti rosari (quello è utile, ma il fine è un altro), ma abbracciare un bambino/a. Posso accogliere la bambina che abita in mia moglie quando mi mostra le sue paure e le sue insicurezze, la sua bambina spaventata di non essere all’altezza come lavoratrice o come madre, la bambina portatrice delle vulnerabilità legate alla sua storia. Sono chiamato ad accogliere il bambino che abita in me, terrorizzato dalla possibilità di essere inadeguato, inamabile, e stringerlo tra le braccia della mia parte adulta. Sono ovviamente chiamato ad abbracciare quel bambino che ancora abita nei miei figli, soprattutto nei due figli adolescenti, ragazzi che stanno germogliando alla vita con tutte le loro insicurezze. 

Non è casuale che Gesù parli dell’accoglienza dei bambini, proprio dopo il discorso su chi era il più grande tra i discepoli. Non siamo chiamati a compensare le paure e le vulnerabilità del nostro bambino interiore facendoci grossi e grandi, ma accogliendo questa nostra parte fragile e amandola. La bella notizia è che, facendolo, ameremo, insieme a quella parte vulnerabile, anche Gesù e il Padre celeste, i quali, a loro volta, amano il bambino che abita in ciascuno di noi. Accogliamo i nostri bambini per amarci meglio tra noi sposi.

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Data di aggiornamento: 29 Settembre 2024

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