Quel Bambino nella mangiatoia
Uno dei centenari francescani che probabilmente avrà più risonanza è quello che celebriamo in questo dicembre: ottocento anni dal presepe di Francesco a Greccio. La parola «presepe» viene dal latino praesepium, che significa greppia, mangiatoia; dal 1223 si iniziano a chiamare con questo nome le rappresentazioni tridimensionali della natività, fatte con statue o persone viventi. Ma perché si usa questo termine per riferirsi alla natività? Non si potrebbe parlare di «stalla di Betlemme» o di «nascita di Gesù»? Certamente «presepe» è la parola che compare nel vangelo di Luca, dove si narrano gli eventi, e per ben tre volte. Anzitutto, Maria depone il bambino avvolto in fasce nella mangiatoia (Lc 2,7). Poi, gli angeli indicano ai pastori come segno della nascita del Salvatore il fatto che lo troveranno, avvolto in fasce, in una mangiatoia (Lc 2,12); e così accade (Lc 2,16).
Il presepe o mangiatoia, quindi, è un segno distintivo per riconoscere il Signore. Ed è proprio questo segno che Francesco vuole contemplare: nel racconto di Tommaso da Celano, biografo del santo, si dice che egli vuol «vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato [Gesù] per la mancanza delle cose necessarie a un neonato e come fu adagiato in una greppia» (cfr. Fonti Francescane 468). Certo, commuove rivedere nel presepe le condizioni in cui Gesù viene al mondo, purtroppo condivise da molti bambini anche oggi. C’è però un particolare sottolineato in quella notte di Greccio: si dice che tanti, che l’avevano dimenticato, hanno vissuto l’esperienza di sentire rinascere Gesù nel loro cuore e da quel momento il ricordo di lui è rimasto impresso profondamente nella loro memoria.
Come si può aver dimenticato Gesù? Significa forse non ricordare più il catechismo o qualche episodio della sua vita? Scordarci di dire le preghiere? Forse anche questo, ma soprattutto dimenticare Gesù vuol dire vivere come se non ci fosse, come se la sua presenza fosse indifferente per noi e per la nostra storia. E ciò accade quando ci lasciamo vincere dall’egoismo o dal nostro orgoglio di farcela da soli nella vita; allora non siamo disposti a fare spazio ad altro che a noi stessi o a quanto ci applaude e ci approva. È un rischio che corriamo, quello di chiuderci in noi, che non solo ci ostacola nel riconoscere il Signore nella nostra vita, ma anche nell’incontrare gli altri. Il cuore indurito, che ragiona solo secondo il proprio interesse, finisce per dimenticare la comune umanità, per considerare l’altro come un problema o un pericolo, per creare divisioni e schieramenti. Per scavare fossati e innalzare muri che impediscono di guardare negli occhi e riconoscere nell’altro un fratello, e così calpestarlo o eliminarlo, come purtroppo avviene ancora in molte parti del mondo.
Gesù non è venuto per schierarsi a favore di un’ideologia, ma per stare dalla parte di tutti e di ciascuno: per questo si è fatto uomo e ha scelto l’ultimo posto, quello del servo. Certo, senza scendere a compromessi col male, ma compromettendosi con i peccatori, fino a dare la vita per noi. Non a caso Francesco vuole celebrare l’Eucaristia, memoriale del dono d’amore di Dio per noi, su quel presepe: infatti, tra i personaggi presenti, non c’è il bambino, ma Gesù si fa presente, sotto poca apparenza di pane. È la via dell’umiltà scelta da Dio per incontrarci: non è eclatante, non fa tanto rumore, passa quasi inosservata agli occhi distratti del mondo. Eppure con questi segni Dio mostra di voler stare fino in fondo dalla nostra parte, di compromettersi con noi fino a spezzarsi per noi. E allora, che cosa possiamo fare? Anzitutto meravigliarci per quanto Dio è disposto a fare per noi, partendo semplicemente dal lasciarci disarmare dal sorriso di un bambino.
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